lunedì 30 luglio 2012

Turistas Italianos

Due o tre mesi fa qualche amico locale mi suggeriva di prepararmi all'arrivo dell'estate, perché Valencia si sarebbe riempita di turisti italiani e, ahimé, non sempre della miglior specie. E la previsione si è puntualmente avverata.

Lungi dal voler fare il solito radical chic criticone dell'italiano medio (ad esempio, l'italiano medio che applaude fiero all'atterraggio dell'aereo, che sempre mi fa nascondere la testa tra le mani alla fine di ogni volo) è purtroppo risaputo che, tra la tanta gente normale, buona parte dei turisti italiani che vanno in vacanza  sulla riviera spagnola non sono proprio la miglior selezione del nostro popolo.

Ed ecco alcune tipologie classiche di TIAV (Turista Italiano A Valencia):

1. L'amante dei cliché spagnoli.
Sabato mattina sono andato in spiaggia con un mio amico; lui è andato via poco prima di pranzo, ma io, visto che non avevo nulla in frigorifero, ho deciso di andare a pranzare a La Ola, un mugrebar sulla spiaggia nella zona che Rita vuole demolire, e mentre ero lì si è avvicinato un gruppo di quattro ragazzi immersi nei loro occhiali da sole che già avevo riconosciuto essere italiani. Quando la cameriera gli ha chiesto le ordinazioni, sono riusciti - a fatica - a capirla e chiedere dei panini e una brocca di birra. A quel punto la cameriera li ha ringraziati e uno di loro, credendo forse che fosse un atto di cortesia, ha alzato un braccio e mosso la mano a mo' di ballerina di flamenco e ha detto: "Oooolè!".
La cameriera ha sgranato gli occhi, l'ha guardato inorridita e poi è scoppiata a ridere andandosene.
Io, nel frattempo, sono sprofondato nel mio gazpacho.

2. L'italiano po-po-po-po
Siccome pare brutto non ricordare al mondo che, ormai 6 anni orsono, l'Italia ha vinto i Mondiali di calcio, gruppi di giovani spesso cantano l'orrenda parodia di "Seven Nation Army" che è divenuta l'inno dell'Italia campione del mondo.
Un mesetto fa ero a bere nel Carmen con un paio di amici ed un gruppo di ventenni o giù di lì è passato accanto a noi, cantando in coro e, non contenti, hanno iniziato a tenere il ritmo battendo le mani contro la serranda di un negozio chiuso.
E vabbè.

3. L'italiano seduttore
Gli italiani vanno molto fieri della fama da latin lover che li precede. E poiché credono che approcciare le spagnole sia più facile, almeno linguisticamente, che approcciare le svedesi (soprattutto perché non vanno in vacanza in Svezia) è più che frequente incrociare il classico gruppo di sausage party che vede due o tre ragazze passargli accanto e cerca di approcciarle con un "ehi, chica guapa!" o "ehm scusa, donde se puede mangiar? nos accompagnis?" o ancora meglio "chica, te gusta la movida?".
Mátame, por favor.

4. L'italiano lamentoso
I turisti - di qualunque Paese siano, e ovunque vadano - hanno la tendenza, o almeno la maggioranza di loro, ad andare sempre e solo in posti per turisti. Mi riferisco sia a bar e ristoranti, che a quartieri o strade particolari. E così ho spesso sentito turisti italiani che passeggiavano per Calle Caballeros o nei dintorni della Lonja e si lamentavano dicendo "e meno male che la Spagna era economica, io a [nome qualsiasi di paesino sperduto] ceno con la metà".
Oppure che si lamentano del cibo, sostenendo che "comunque, come la cucina italiana non c'è nulla".
O che sentono la mancanza delle "belle spiagge attrezzate e con ombrelloni (leggi: spiagge privatizzate, dove non hai un buco dove andare a meno che non paghi per affittare un ombrellone) che in Italia ci sono dappertutto, mentre qua è tutto abbastanza abbandonato" (leggi: libero e gratuito).

Io non sono un esterofilo. Da quando sono all'estero mi sento anche più italiano di prima e a volte difendo l'Italia quando sento commenti troppo generalizzati e superficiali. Ma quando assisto a queste scene vorrei che si aprisse una voragine sotto di me e mi risucchiasse, o perdere il passaporto e con esso la mia nazionalità, o almeno perdere l'udito e la vista, se non la vita stessa.

Un despistado al gimnasio


(27 Luglio 2012)
Mercoledì sono andato in palestra.
Sei mesi fa mi sono iscritto in una palestra che è vicinissima a casa mia (sia quella attuale, sia quella dove mi trasferirò a settembre). Per arrivarci devo solo fare questo:

E’ una palestra piuttosto cara per gli standard di Valencia, la città con 5 palestre ogni 2 abitanti, ma quando ho deciso di iscrivermi il mio ragionamento basato puramente sul voler evitare il senso di colpa era il seguente: se pago molto per andare in palestra, ci andrò, così che non mi sembrerà di stare buttando soldi. E, per la prima volta nella mia vita, questo ragionamento ha funzionato.
Insomma, mercoledì sono andato, ho chiesto un asciugamani alla reception, ho passato il mio tesserino magnetico per entrare e a quel punto ho pensato di tornare indietro per chiedere informazioni sul rinnovo del mio abbonamento, che scade a fine mese.
Quando sono tornato indietro, la ragazza mi ha guardato e si è rivolta a me:
“C’è qualche problema, Gaetano?”
‘Conosce il mio nome?’ ho pensato interdetto. Poi mi sono reso conto che lei lì ha il pc su cui compare la scheda di ognuno quando entra, con tanto di foto, e la mia illusione di non essere invisibile è svanita.
“E’ che mi pare che il mio abbonamento stia per scadere, per cui vorrei fare il rinnovo…”
“Vamos a ver… Si, scade a fine mese”, mi ha risposto.
“Vieni pur qui e facciamo tutto!” , mi ha detto Miguel, il ragazzo - gentilissimo - che si occupa degli abbonamenti, e che ha una voce da televendita.
Mi ha detto il prezzo, io ho chiesto se c’erano sconti per personale dell’Università perché sei mesi prima non l’avevo chiesto, cosa fai, sono Professore, ah muy bien, c’è uno sconto del 30%.
“Se mi dai il tesserino vado a fare una fotocopia e torno.”
Al che gli ho dato il tesserino dell’Università e lui è andato al piano di sopra. A questo punto, la ragazza della reception mi ha guardato un po’ interdetta:
“Ti ha lasciato qui solo?!”
“No, è andato a fare la fotocopia del mio tesserino…”
“Tu sei stato mio professore, Gaetano?”
“…”
“…”
“Ah beh… Magari tu dovresti ricordarti meglio di me…”
“E’ che il tuo viso non mi era nuovo e poi ho visto il cognome prima e mi sono detta ‘mi suona’…”
“Ah beh”
Nel frattempo Miguel è tornato e io sono entrato in palestra. A quel punto, negli spogliatoi, mi sono accorto di aver dimenticato a casa la maglietta per la palestra. Sull’orlo delle lacrime, ho rimesso tutto in borsa e mi sono diretto all’uscita.
“E ora che succede?, mi ha detto la receptionist-studentessa.”
“Ehm, ho dimenticato la maglietta a casa… torno tra poco…”
“Olé tú!” mi ha risposto ridendo.
“…”
… E io sono tornato a casa, ho preso la maglietta dei Blonde Redhead che avevo messo da parte, sono tornato in palestra, e non appena sono entrato è suonato l’allarme.
Miguel e la receptionist-studentessa mi hanno guardato increduli.
“¿ Qué pasa ?”, mi ha chiesto Miguel. A quel punto ho avuto l’illuminazione:
“Ahh.. è che ero riuscito per andare a prendere la maglietta, che avevo dimenticato a casa, e mi sono portato dietro l’asciugamani che mi aveva dato lei…”
“Oggi non è il tuo giorno fortunato eh?”, mi ha detto la receptionist-studentessa.
“No, ma non lo è mai”, mi sono limitato a rispondere, mortificato.


Me voy al FIB

(23 Luglio 2012)

Dal 12 al 15 luglio sono stato con una mia amica al Festival Internacional de Benicàssim, uno dei Festival più importanti dell’Inglhil… ehm, della Spagna. Si svolge a un’ora di macchina da Valencia, a Benicàssim appunto, ma la quantità di inglesi che ci sono ti fa quasi pensare di stare nel Regno Unito. Beh no, diciamo a Gibilterra, dato il clima.

Il FIB è un’esperienza di vita, soprattutto se poi si decide di andare a stare in tenda, come abbiamo fatto noi (fino ad un certo punto eh: abbiamo noleggiato una tenda in una zona del camping dove erano già montate. All’avventura sì, ma non troppo).

Ed ecco a voi una lista di cose che possono succedere al FIB:

1) Vedere un ragazzo che, in mezzo alla folla, si mette ad orinare (creando una voragine attorno a sé perché tutti si allontanavano disgustati) con sguardo fiero, mentre un suo amico si tuffa sotto al getto di cui sopra.
2) Perdere il portafogli con tutti  i contanti che ti sei portato non da ubriaco, né durante il concerto: di mattina, il secondo giorno, sull’autobus diretto alla spiaggia.
3) Fermarsi tra i chioschi del cibo, fissato da una ragazza sconosciuta perché hai la t-shirt di Rufus Wainwright, e iniziare a cantare “Oh What a World” con lei.
4) Scoprire che il motivo per cui avevi comprato il biglietto, detto “Florence and the Machine”, ha cancellato il concerto il giorno prima della partenza.
5) Maledire il 50% dei cantanti o gruppi che sono stati inseriti nel cartello: in particolare, David Guetta, Jessie J, Dizzie Rascal; chiedere “e questi chi cazzo sono?” per il 40%, godersi il 9% e scoglionarsi con Bob Dylan.
6) Essere intervistato dalla TV mentre torni dalla spiaggia stanco, sabbioso e ustionato, con in testa un cappello di paglia sponsorizzato da Ron Barceló e nonostante questo alla loro domanda “possiamo farvi qualche domanda?” rispondere, entusiasta: “Sì!”
7) Essere svegliato l’ultima notte dalla vicina di tenda americana che urla ubriaca a ripetizione “it’s fucking cold” e poco dopo scoprire che aveva freddo perché lei e il ragazzo, per rientrare in tenda, l’avevano tranciata di netto.
8) Per la prima volta nella vita, rivolgersi in spagnolo a degli spagnoli e sentirsi rispondere sempre e solo in inglese.
9) Assistere alle allegre e disinibite nudità pubbliche dei ragazzi e delle ragazze inglesi.
10) Bere birra ed acqua in proporzione 4:1 (e siamo stati bravi) .

Ma soprattutto: sentirsi la persona più sana e più pulita del mondo in mezzo ad alcune decine di migliaia nonostante sia appena finito un concerto e tu sia piuttosto ubriaco.



María José toma la calle

(17 Luglio 2012)


Maria José è di sinistra. Aveva un incarico politico in una amministrazione comunale in Estremadura, fino allo scorso maggio, poi le elezioni amministrative le hanno fatto perdere il posto (ed evidentemente anche il numero di cellulare, che è stato dato a me da Movistar).
A quanto pare, però, MJ continua con l’attività politica (o almeno, i suoi ex compagni lo vorrebbero): dopo l’ultima manovra lacrime e sangue del Governo che, tra le altre cose, mi ha fatto dire addio alla tredicesima di dicembre, Maria José (io) ha ricevuto il messaggio su Whatsapp di cui sopra.
Si convocava una manifestazione venerdi scorso davanti alla sede del PP di Avenida Antonio Hurtado a Caceres e questo direi che rende praticamente sicuro che non fosse una manifestazione in sostegno al governo.
(Nota: “Hurtado” è scritto con la minuscola. “Hurtado” significa rubato. Io come prima cosa pensavo avessero rapito un certo Antonio, poi ho avuto l’illuminazione. La gente deve imparare a usare le maiuscole.)
Quindi: venerdì sera, mentre io ero al Festival di Benicassim (che presto narrerò su queste pagine) Maria José lottava per il futuro suo e mio. Oppure non era lì perché non ha ricevuto il messaggio, e io non ho fatto nulla perché lo ricevesse, e chissà cosa penseranno ora di lei i suoi compagni di partito.


La Comunidad de Cuenca Tramoyeres

(10 Luglio 2012)


Il palazzo in cui vivo è molto strano. Innanzitutto è enorme: ha dieci piani e ci sono 12 appartamenti in ogni piano, per cui ci sono 120 abitazioni. Inoltre, ha un gigantesco cortile interno attorno al quale passa il corridoio di ogni piano, il che mi ha fatto sempre vedere questo edificio come una via di mezzo tra un alveare tipico delle zone di mare e il set di un film di David Lynch. Ci vive gente di ogni tipo ed estrazione sociale: studenti, anziani pensionati, famigliole della classe media, immigrati latino-americani, io.
In un edificio così grande è ovvio che ogni tanto succedano cose strane.
Ieri sera stavo cenando con i miei genitori e le mie sorelle, che sono venuti a trovarmi per qualche giorno. Anzi, avevamo appena finito di cenare, ed io ero uscito sul balcone a fumare una sigaretta, quando ho sentito suonare il campanello: era la Signora Guapo.
La Signora Guapo è una vecchietta di almeno 80 anni alta un metro e una mano che, le rare volte che l’ho incontrata, mi ha sempre chiamato “Guapo”. Di solito passeggia nel corridoio comune del piano; vive a due appartamenti di distanza dal mio (dopo gli Studenti Baschi e la Ragazza Madre) e ieri sera era agitata:
“Cariño, per caso avete preso voi un asciugamano bianco che avevo steso qui all’esterno?” mi ha chiesto, allarmata.
“No signora, mi spiace, io non uso lo stendino comune qui all’esterno”.
“È che oggi sono dovuta andare dallo specialista perché ho problemi ai reni, uyuyuy come mi fanno male, e al mio ritorno non c’era più. Sicuro che non siete stati voi?”, insisteva.
“No mi spiace. Ha chiesto ai vicini?” ho risposto, indicando la porta degli studenti Baschi.
“No, mi accompagni a chiedere?”
“…”
“…”
E così abbiamo suonato agli studenti, che non c’erano, e la signora Guapo mi ha spiegato che spesso stendono i panni e li lasciano anche tre giorni.
“Proviamo a chiedere a Rita?” (la ragazza madre), mi ha detto. Ho suonato al campanello, Rita ha aperto la porta e in un nanosecondo è uscito il suo bambino di tre anni, correndo verso la fine del corridoio.
“Alvaroooo!!!! Vuelve aquí!”, ha gridato Rita. “Salve, che succede?” ci ha detto, mentre una sua amica poco più che ventenne si appoggiava sull’uscio della porta fumando la sua sigaretta.
“La signora non trova un asciugamano bianco che aveva steso qui, lo avete preso voi per sbaglio per caso?”
“No…”
E così ho riaccompagnato la signora Guapo verso la sua porta di casa, che era aperta, e dalla quale si iniziava ad affacciare un signore anziano che credevo fosse suo marito
“La accompagno alla porta”, le ho detto, mentre la sorreggevo, “vive qui vero?”
“Sì sì grazie, è che non mi reggo in piedi”.
“Cosa vuole?” è intervenuto il vecchio in canotta dall’ingresso, rivolto alla Signora Guapo. “Lei non vive qui”
“Heheheh!” ho detto io, con un filo di imbarazzo, pensando che fosse un simpatico zuzzurellone, mentre la Signora Guapo si innervosiva. “Ma per favore, lasciami passare!”, ha detto lei, spazientita.
“Signora, se vuole entrare un momento va bene, ma lei non vive qui!” insisteva il vecchio. “Cállate, coño!” (trad: “Stai zitto, cazzo!”) ha risposto lei, alzando la voce.
“Ehi, questa mi è entrata in casa!” gridava sempre più nervoso l’anziano. A quel punto ho cominciato a pensare che potesse avere dei problemi di Alzheimer, e lentamente mi sono riavvicinato alla porta di casa, finché non ho sentito il bastone della signora Guapo fare uno strano rumore.
“Oddio, non è che la sta picchhiando?” è intervenuta mia sorella, che fino ad allora aveva lasciato me in prima fila.
“Lasciami sedere che mi fanno male i reni!” urlava, nel frattempo, la signora Guapo da casa sua.
“Me cago en Dios!” ha risposto l’anziano con tutta la sua forza.
Tutto normale, insomma, e così siamo rientrati in casa. E ora che ho ufficialmente iniziato la ricerca del nuovo appartamento penso che, infondo, la Comunidad di Cuenca Tramoyeres 2 mi mancherà.

Gate, Pedro, Claudia y el Negro

(27 giugno 2012)
Ieri sono uscito dal lavoro in anticipo perché avevo fissato un appuntamento dal dermatologo. L’appuntamento era alle 6.30, ma, visto che dovevo arrivare fino alla zona dei Pijos, poco prima delle sei ero già sulla mia bici.
Arrivato nello studio, mi sono avvicinato alla signora della reception:
“Salve, io ho un appuntamento alle 18.30”
“Ah sì, Gaetano. È la prima volta che vieni?”
“No, ero venuto già a fine gennaio”
“Che strano, io non ti trovo nel sistema”
“C’è l’apostrofo nel cognome”
“Ah eccoti! Però qui ti chiami Pedro”
” … “
” … “
“Ehm no, non mi chiamo Pedro, mi chiamo Gaetano.”
Dopo la visita, durata 6 minuti e costata 60 euro (un ritmo da 10 euro al minuto, niente male il Dott.), sono passato in farmacia a prendere la pomata che mi era stata prescritta. “Mi spiace ma non ce l’abbiamo disponibile, se vuole posso ordinarla e domattina ce l’avremo già”, mi ha detto, affranta, la farmacista. Io ho acconsentito, e lei mi ha chiesto il nome per inserirlo nel sistema.
“Gaetano. G-a-e-t-a-n-o. E il cognome è…”
“Oh facilissimo, già fatto.”
A quel punto ho visto sul suo schermo che aveva scritto “Gate” e stava per premere invio:
“Ma veram… Ehm…”
“E’ sufficiente il nome, non si preoccupi”
” … “

Non sapevo se essere affranto o offeso, ma a quel punto mi sono diretto al Mercadona, il supermercato che ho giusto di fronte casa, per fare la spesa. Avere un Mercadona di fronte a casa non è una mia prerogativa: Mercadona è come un virus diffusissimo in Spagna e soprattutto a Valencia, e ogni valenciano ne ha uno nel raggio di 50 metri da casa:

Quando ero alla cassa, con i miei auricolari e la musica nelle orecchie, ho visto che il ragazzo che era davanti a me mi stava dicendo qualcosa
” …azione!”
“Ehm, scusa? Non sentivo”
“Sei venuto a fare la spesa per la colazione!”
“Eh già”, ho risposto io, con un filo di vergogna, guardando la poca roba che avevo appena poggiato sulla cassa: la scatola da 6 litri di latte, le magdalenas integrali e il barattolo di Nesquik. (C’era anche un deodorante, ma quello chiaramente non è per la colazione)
“Io ho dimenticato di comprare il latte, ma non ho voglia di tornare indietro”
“ … “
Mentre pagavo, lui si era fermato ad aspettarmi, e così, uscendo, abbiamo continuato a parlare:
“Io sono Gaetano”, gli ho detto, dandogli la mano.
“Io Pedro, mucho gusto “
“Quello del dermatologo…”
“Come hai detto scusa?”
“Niente, lascia perdere!” ho risposto, con un po’ di imbarazzo.
“Di dove sei? Hai uno strano accento”, mi ha chiesto, e così gli ho spiegato che sono italiano, che no, non sono uno studente Erasmus ma grazie per aver creduto che io sia ancora uno studente, e sì, a Valencia si vive bene. Tutto questo in circa 30 metri.
Mi sono fermato al semaforo per attraversare e ho fatto per salutarlo: “Io attraverso qui, vivo in questo palazzo”.
“Il numero 2!” mi ha risposto, sorpreso.
“Ehm sì”
“Anch’io sono lì. Ottavo piano. Ma non vivo qui, sono in vacanza. Sono ospite da amici. Conosci Claudia y el Negro ?”
“No… in realtà non conosco nessuno del palazzo, salvo Juan Carlos, il portinaio”
“E come mai?” mi ha detto guardandomi sorpreso, come se io fossi un triste asociale che non si era ancora integrato nella Comunidad .
“Ehm non lo so. Non ho mai fatto amicizia con i condomini”
“Bene allora domani vieni a fare un aperitivo italiano da Claudia y el Negro. Anche Claudia è italiana. Sicuro che non la conosci?”
“Grazie, mi farebbe piacere, ma a Claudia e al Negro farà piacere?”
“Siamo all’ottavo piano”, mi ha risposto, ignorandomi.
“Io al quarto”, ho detto, mentre arrivava l’ascensore.
Dopo esserci scambiati i contatti, ci stavamo salutando e lui ha rincarato la dose: “Bene a domani allora, così inizi a conoscere un po’ di gente qui a Valencia!” 
“Ma veramente io conosco gente, solo che non vive qui in questo palazzo”
“Fa lo stesso!”
” … “
E così, stasera, Gate farà aperitivo con Pedro, Claudia y el Negro.

Sin un duro

(21 giugno 2012)


L’espressione “no tener ni un duro” in spagnolo significa “non avere una lira”, “avere le pezze al culo”, “non avere i soldi per fare un segno al muro”. In particolare, il duro era il nome colloquiale dato alla moneta da 5 pesetas, equivalente a 58 lire o, per essere più moderni, 3 centesimi di euro. Insomma, come il dollaro ha i nickels e i dimes, e la sterlina ha il penny, la gloriosa peseta (che, visto l’andazzo delle cose, potrebbe tornare tra noi prima della fine di questo anno bisesto) aveva il duro.
Dal valore intrinseco del duro è abbastanza chiaro che se una persona non ha nemmeno quello è davvero messa male. Dopotutto, con 3 centesimi non ci compri nulla. Anzi: 3 centesimi vuol dire una moneta da due e una da uno, e quelle monete sono così sfortunate che gran parte dei distributori o biglietterie automatiche non li accettano. E’ chiaro che quella del duro è un’iperbole, perché cazzo, 3 centesimi si trovano anche per strada, però esemplifica bene una situazione un po’ complicata in cui ci si può trovare.
Ci sono diversi modi per ritrovarsi sin un duro: non avere un reddito, e in quel caso la situazione è più o meno permanente; avere un reddito insufficiente, per cui cronicamente si arriva alla fine del mese (o già alla metà del mese) con il conto corrente prosciugato, oppure vivere al di sopra delle proprie possibilità, con una gestione irrazionale delle proprie risorse.
Alcuni esempi di istituzioni e persone sin un duro: il Governo Greco; la Generalitat (l’amministrazione regionale, nda) Valenciana; il barbone anziano con i rasta che alloggia tra via della Grada, via San Felice e via Riva di Reno a Bologna; io.
(12 giugno 2012)

Va detto che io sarò anche uno dei parlatori più lenti che abbiate mai incontrato, ma la mia testa, quando è ben salda sulle spalle, non è immersa nel sonno o presa in prestito, è tutt’altro che lenta. La mia mente, posso provarlo, si libra su ali di colibrì. Saetta e turbina.
E se anche sono capace di dimenticarmi qualsiasi cosa, per quanto grave - ragion per cui la gente mi confida volentieri i propri segreti - quando si tratta di dolore la mia mente ha una curiosa tendenza all’ organizzazione.
Niente che abbia il carattere della sofferenza va perduto dentro di me, né tanto meno ridotto quanto a colore, intensità o qualità del suono. Tutti questi aspetti vengono disposti con cura in modo tale da trovarsi bene in vista.

- Dave Eggers, “Conoscerete la Nostra Velocità”

Fumar mata

(12 giugno 2012)

Nell’ultimo anno e mezzo ho smesso di fumare tre volte, e tre volte ho ricominciato.
La prima volta che ho smesso di fumare è stato a fine ottobre 2010, dopo la terza tonsillite nel giro di pochi mesi, che mi ha fatto venire il terrore che tutto ciò fosse dovuto al fumo: smisi di punto in bianco, e fu un successo, per 6 mesi. Tra l’altro, nonostante i peggiori non fumatori siano gli ex fumatori stessi, credo di essere stato un ex fumatore modello: mi si poteva fumare davanti e a lato e io non battevo ciglio. Solo provavo invidia, e tanta nostalgia, ma tutto qui.
Tra l’altro, dimostrai che non è vero che lo stress ci porta a fumare: nel corso di quei 6 mesi, nell’ordine: sbriciolai, per sbaglio, i miei occhiali, subii il furto del pc mentre andavo ad una conferenza, feci – tra gli altri – i due colloqui di lavoro più importanti della mia vita e completai la tesi di dottorato. E nonostante questo non ricominciai a fumare.
Poi arrivò, un bel po’ inatteso, il trasloco a Francoforte, a metà aprile. Dopo 3 giorni che ero lì ricominciai a fumare. Ricordo ancora la sera: ero con i miei nuovi amici, che iniziavo a conoscere, in un locale di Sachsenhausen (il cui proprietario, con nostra grande tristezza, morì in circostanze poco chiare, nel fiume Meno, alcuni mesi dopo) e decisi che era il momento di ricominciare a fumare. Con un pacchetto di Marlboro rosse.
Nel corso dell’estate riprovai a smettere. Dopo un sabato sera tra alcool e sigarette, i cui ricordi erano abbastanza sfocati, ma i rantoli provocati dal fumo erano evidenti, decisi di smettere di nuovo. Quella volta durai 2 giorni.
Poi venne il trasloco a Valencia: finite le incombenze legate alla nuova vita da iniziare in Spagna, iniziai a godere dell’effetto positivo che il meteo di questa città aveva sul mio umore. E così, a novembre, decisi che era il momento di smettere di nuovo. Questa volta ho resistito per 4 mesi, ma di tanto in tanto fumavo una sigaretta. Non le compravo, per non sentirmi dipendente, ma le scroccavo, e così il senso di colpa era doppio. A marzo, finalmente, ho ammesso a me stesso che avevo ricominciato a fumare, e ogni giorno fumavo di più.

Ora ci riprovo. Mentre scrivo, sono passate 58 ore dalla mia ultima sigaretta. Fumata (insieme alle 19 che le facevano compagnia del pacchetto) nella notte tra sabato e domenica. Anche stavolta ho smesso per i sensi di colpa legati ai postumi eccessivi. Mi sono detto che, se non fumassi, magari anche bevendo troppo un sabato sera, il giorno dopo non starei così male. E che si sappia che le foto orribili che il Ministero della Salute spagnolo fa mettere sul retro dei pacchetti non mi hanno influenzato.
Eppure, voglio una sigaretta. Voglio terribilmente una sigaretta. Fare un tiro e poi buttarlo fuori, così, in una pausa qui davanti alla facoltà, sotto il sole e con i miei Ray-Ban. Vorrei fare un tiro, controllando come si brucia, cosa che faccio sempre. La cosa migliore del fumare è il momento in cui accendi la sigaretta e tiri fuori il primo tiro: è quando la sigaretta ha il sapore migliore. O vorrei essere in spiaggia in compagnia, bevendo una birra gelata, chiacchierando con una sigaretta in mano, così che mentre parlo esce dalla mia bocca il fumo dell’ultima inalazione. E poi, mentre la spengo, accertarmi che si spenga bene, così che non continui a uscire fumo dal posacenere.

Voglio una sigaretta, disperatamente.

Cucarachas

(5 Giugno 2012)





C’è qualcosa di buffo nella parola che gli spagnoli usano per dire scarafaggio o blatta. “Cucaracha”, dopotutto, fa quasi tenerezza. Suona un po’ come “coccinella”. Poi invece la vedi e ti fa schifo.
Io ho sempre provato terrore verso gli scarafaggi. La fobia per gli scarafaggi, insieme a quella per i ragni e quella per la vita nel suo complesso sono sempre state le mie paure più ingestibili e irrazionali. Dentro di me sono cosciente che uno scarafaggio non può uccidermi, né può farlo un ragno di quelli domestici, o che se calpesto una blatta lei non riuscirà a bucare la suola della mia scarpa ed entrare nel mio piede, ma, ciononostante, quando le incontro vado nel panico.
Domenica scorsa ero in spiaggia, a Canet d’En Berenguer, con alcuni amici, e parlavamo dell’arrivo del caldo che, a Valencia, significa anche “olezzo che fuoriesce dalla fogna in certe stradine del Carmen” e “scarafaggi che si avventurano per strada”, e così è tornato il panico.
Sì. A Valencia gli scarafaggi passeggiano per strada la sera d’estate, in centro insieme alle signore pijas che tornano dall’aperitivo al Mercado de Colón,  o al Cabanyal insieme ai gitani che si siedono sulleloro seggiole in mezzo alla strada. La prima volta che vidi degli scarafaggi per strada a Valencia ero qui solo da 2 settimane e volevo suicidarmi. Poi ho assorbito il colpo: ogni città ha la sua piaga, New York ha i Bed Bugs, Valencia (insieme a Sydney e Tokyo) le blatte, Milano le zanzare, Francoforte le vespe e quindi bisogna mettersi l’anima in pace.

La McBlatta
Lo scorso ottobre ero nel Carmen con un amico, avevamo fatto un aperitivo super-prolungato e verso le undici, affamati e senza soldi, mentre ci avviavamo verso casa, abbiamo deciso di prendere da mangiare al McDonald’s. Poiché il tempo era bello, invece di sederci dentro, siamo andati ad ordinare dalla finestrella per poi mangiare su una panchina. Mentre eravamo lì, abbiamo visto con terrore una blatta sul vetro, o meglio tra il vetro e un cartello:
- Signorina, c’è una blatta!
- Oddio dove?
- È qui davanti a lei, dietro il cartello!
- Aaaah! Non voglio saperlo! Mi fanno paura!
- Anche a noi, ma soprattutto ci fanno schifo!
- Ecco, lasciatela stare!
- Ma… qui date da mangiare alla gente!
Non ho mangiato quella sera. E non sono più tornato al McDonald’s.

Blatte all’ingresso
Vivevo nel mio appartamento da poche settimane quando una sera, di ritorno da lavoro, sono arrivato davanti al portone ed ho visto una blatta che passeggiava tranquilla lì davanti. Juan Carlos, il portinaio, era ancora lì, ed è stato vittima del mio attacco di ansia:
- Juan Carlos, c’è una blatta!
- Ah.
- Dovremmo ucciderla?
- E perché?
- Beh se entra? E se ci infesta tutto il palazzo?
- E se invece è uscita da qui?
- …
Forse è per questa storia che JC sempre mi saluta con sospetto e credo mi odi. Comunque, non ho mai incontrato blatte a casa mia, e grazie al cielo. Non starei qui scrivendo le mie memorie.

Kill the Blatta

Ci sono regole precise per l’uccisione delle blatte: bisogna chiamare la disinfestazione. I vari Raid e compagnia bella sono inutili, perché loro imparano a difendersi, e soprattutto non bisogna mai schiacciarle con le scarpe. Infatti, le blatte al loro interno hanno le uova e si rischierebbe di trascinare le uova in ogni dove, ad esempio in casa (per questa teoria, che in realtà è un fatto, sono stato deriso, ma vabbè).
Una sera tornavo a casa a piedi, asoltando la musica (e quando io ascolto musica mi isolo dal mondo) e, mentre camminavo, ho sentito il mio piede clapestare qualcosa con una strana consistenza, e non era una merda. Alzai il piede e, con sommo terrore, mi accorsi di aver calpestato una blatta. Data la teoria delle uova, non potevo tornare a casa come se nulla fosse; né potevo togliermi le scarpe e buttarle: ho una dignità, anche se scarsa.
Così, feci gli ultimi 10 minuti di cammino strisciando il piede sinistro, per pulire la suola, manco fossi spastico. Arrivato a casa, misi le scarpe sul balcone e dopo qualche giorno le riutilizzai, pensando che le probabili uova, a questo punto, sarebbero morte. Sono proprio un genio.

Un año de docencia

(28 Maggio 2012)



Venerdì è finito il secondo semestre. È finito il mio primo anno da prof, e ne esco stanco morto, e la prossima volta che qualcuno mi dice “ah fai 8 ore di lezione a settimana? Scusa, ma che fai il resto del tempo?” gli tiro una sberla. E no, non risponderei “scrivo cazzate su unapregunta.tumblr.com”.
Ad ogni modo, quest’anno mi ha regalato delle perle che mai avrei potuto immaginare. Già da 6 anni facevo docenza in università, ma da assistente, e chiaramente non è la stessa cosa. Gli studenti sono molto più creativi quando hanno a che fare con il titolare del corso, e le cadute di stile che si possono avere con loro hanno una portata molto maggiore.

La mala educación
Nelle mie ore di ricevimento studenti, ho alcuni aficionados. Tra di loro, una studentessa con la quale ho avuto un rapporto conflittuale dall’inizio del corso, quando, durante una lezione in cui lei, seduta in prima fila (in un’aula di 30 persone), non la smetteva di parlare a voce alta con la sua compagna di banco, sbottai:
- Mi fate la cortesia di andare a parlare fuori? Nessuno vi costringe a stare qui
- Eh?
- E’ dall’inizio della lezione che parlate senza fermarvi
- Non è vero
- Sì, e io l’ho sognato.
In realtà poi durante il corso si è comportata meglio, finché un giorno non è venuta nel mio ufficio, in orario di ricevimento, per fare delle domande sulla presentazione che doveva fare in classe il giorno dopo.
- Posso mostrarti la presentazione? E’ sul mio pc.
- Certo, fammi pure vedere.
- Oh, la batteria è scarica. Hai una presa?
- Certo, passami pure il caricabatterie.
Il mio ufficio è così:

Lei era seduta di fronte a me, mi ha passato il cariacabatterie, io mi sono girato a sinistra verso il mio computer perché ho le prese sotto quel tavolo.
Il tempo di rialzarmi, e l’ho trovata alla destra della mia sedia, seduta sul tavolo.
- …
- …
- Puoi andare a sederti al tuo posto
- Ah
Lezione imparata: mai fare ricevimenti a porta chiusa.

Penalización
In entrambi i corsi che ho dato il secondo semestre, assegnavo periodicamente dei lavori agli studenti, che contavano per una parte del voto finale. Se, tuttavia, non si consegnavano, la corrispondente percentuale del voto andava persa. È quella che qui chiamano evaluación continua. In entrambi i corsi, avevo uno studente Erasmus che era arrivato a Valencia con un paio di settimane di ritardo rispetto all’inizio del semestre, e così gli avevo dato un po’ di dritte, in ufficio e a fine lezione, su come recuperare. Lui veniva sempre a fare domande, ma in realtà sembrava un po’ paraculo.
E infatti, quando arrivò il suo turno di preparare il lavoro individuale e la presentazione in classe, non venne. La settimana successiva, con la coda tra le gambe, venne a fine lezione per scusarsi della sua assenza.
- Io ho scritto e vi ho detto che dovete avvisare se non potete venire
- Sì, è che davvero è stato un contrattempo
- Sì certo. È una forma di rispetto verso i tuoi colleghi.
- Adesso che succede? Non potrò fare l’esame?
- Certo che puoi farlo, però quel lavoro valeva il 15% del voto finale. Puoi venire a fare l’esame, ma dovrò penalizzarti
Lui accenna un sorriso e alza un sopracciglio:
- Uh. Penalizzare…
- …
- …
- Sì. Tutto qui.
Sono tuttora sbigottito.

C’è una videochiamata per te
In uno dei due corsi, ho dedicato l’ultimo giorno di lezione a fare una simulazione d’esame. Essendo in un’aula diversa dal solito e senza il computer fisso, ho portato il mio laptop. (Nota bene: in un anno intero, non ho mai fatto lezione con il mio portatile personale.) Ho caricato il documento, il proiettore funzionava bene, e la lezione stava filando liscia come l’olio: gli studenti si offrivano volontari per risolvere gli esercizi.
Unico problema: avevo dimenticato di mettermi “non in linea” su Skype, che tengo sempre connesso visto che lo uso soprattutto per lavoro, così di tanto in tanto comparivano finestrelle dicendomi che varia gente era ora in linea, ma poco male.
Ad un quarto d’ora dalla fine della lezione – pardon, del semestre – è partito un suono a me noto. Quello delle chiatate Skype. Mi giro verso lo schermo gigante e vedo “… ti sta videochiamando”, con tanto di foto-avatar. Gli studenti scoppiano a ridere, io divento rosso e clicco su “ignora”. La mia amica che mi stava videochiamando mi mi ha mandato un messaggio, e così è comparso il suo saluto di sempre, nella finestrella in basso a sinistra: “amour!”, ma io ho fatto finta di niente e ho proseguito la lezione.
Una studentessa, non contenta del momento di imbarazzo che avevo avuto, chiede: “È la tua ragazza?”.
Non ci potevo credere. Mi sono limitato ad aprire le braccia. Poteva significare tante cose, ad esempio “che razza di domande fai”, “vogliamo continuare con la lezione?” ma soprattutto significava “non hai proprio capito niente”.
   

domenica 29 luglio 2012

Chiavi in mano

(18 maggio 2012)



Ieri sono uscito da lavoro relativamente presto. Dopo il solito giovedì, il dia negro della settimana, sei ore di lezione la mattina e tre di ricevimento studenti il pomeriggio, ero talmente esausto che alle sei e mezza ho chiuso l’ufficio e sono tornato a casa.
Poiché ho proprio dall’altro lato della casa un supermercato, ho preso la pessima abitudine, quando ho bisogno di fare la spesa, di ripassare a casa dopo il lavoro, lasciare lo zaino e la bicicletta, e poi riuscire per fare la spesa. Così ho fatto ieri.
Ho lasciato tutto, ho preso il telefono e il portafogli, ho chiuso la porta di casa e mi sono reso conto di aver lasciato all’interno, insieme alla bici e allo zaino, le mie chiavi di casa. Immediatamente sono stato preso dal panico.
(Nota: dopo sette mesi, non ho ancora lasciato a nessuno un mazzo di chiavi di emergenza)
Che minchia faccio ora? Mi chiedevo, mentre le varie opzioni ronzavano nella mia testa. Opzione numero uno: chiamare i vigili del fuoco. Scartata: chissà quanto avrei dovuto pagare, magari con gli ultimi tagli e tasse del governo ora si fanno pagare 900 € per un intervento. E poi chi l’ha detto che in Spagna i vigili del fuoco fanno anche questo? Opzione numero due: chiedere al portiere del palazzo. Scartata: ho sempre pensato che lui mi odi (pensiero che in realtà ho sempre, ogni volta che qualcuno mi saluta con freddezza, e lui lo fa dal 7 settembre), e poi lui non ha la chiave, perché la sua copia è quella che ho io adesso. Opzione numero tre: chiamare la padrona di casa. Accolta.
La mia padrona di casa è un Paternera. In senso stretto, vuol dire che è di Paterna, paese poco fuori Valencia. In senso lato, Paternera in spagnolo è sinonimo di poligonera, o tamarra, o truzza, vocabolo a me già noto e di cui ho già avuto modo di parlare su queste pagine. In realtà lei non è una tamarra, ma mi piace immaginarla così.
Inoltre, è sempre di fretta. Ogni volta che la chiamo mi mette ansia: io già vivo sempre nel terrore di disturbare il prossimo quando gli telefono, lei lo accentua usando un tono della serie “mi sta andando a fuoco casa, muoviti”. Ma stavolta era inevitabile, così le ho telefonato:
- Ciao, come va?
- Hola! Scusa sto lavorando cosa ti serve?
- …
- …
- Ehm mi è capitato un guaio… ho lasciato le chiavi in casa e spero tu abbia una copia…
- Madre mia…
- …
- Ok, sto finendo di lavorare, vengo quanto prima.
E così l’ho aspettata (senza andare a fare la spesa nel frattempo) e dopo un’ora scarsa si è manifestata. Ovviamente, siccome io sono uno sfortunato ed era anche il 17, quando è arrivata lei l’ingresso del palazzo era affollato. C’erano, nell’ordine:
1. Juan Carlos, il portinaio
2. L’alcoolizzata del settimo piano, una signora di mezza età che a volte mi ha attaccato una pezza parlandomi delle sue allegre ubriacature con la sua famiglia
3. La Signora Guapo, una vecchia di almeno 75 anni alta un metro e un toast in orizzontale così chiamata perché ogni volta che mi incontra mi chiama Guapo.
E cosa fa la mia “amica”? Saluta Juan Carlos, che le chiede come va, e lei risponde, in tutta serenità:
- Beh, sono dovuta venire fin qui perché il mio inquilino ha lasciato le chiavi in casa. (Risate)

Stronza.

E io che, nell’attesa, mi preoccupavo di quanto avessi lasciato la casa in ordine.

Elevator Conversations

(10 Maggio 2012)


Poco fa, appena terminato il tour de force di 6 ore di lezione di seguito, sono riuscito a prendere l’ascensore al volo.
ProfessoreIgnoto: Prego entra pure! (e mi lascia entrare nell’ascensore che stava per partire)
Io: Grazie!
ProfessoreIgnoto: “Uh, qui stanno facendo diventare questo ascensore molto intimo” (Ed indica il soffitto, dove noto che 5 lampadine alogene su 8 non funzionano)
Io: eh sì, non le sostituiscono…
ProfessoreIgnoto: Macché! Le stanno rubando!
Io: Ah non mi ero accorto… è vero, mancano
ProfessoreIgnoto: Eh già
Io: Beh… Muy Bien!
ProfessoreIgnoto: Bene? Io non direi affatto bene. Para nada.
Io: …
ProfessoreIgnoto: Secondo te fanno bene?
Io: No ma.. hmpf.. ero… skcjgn… ironico…
(Il ProfessoreIgnoto esce dall’ascensore senza nemmeno salutare)

El apellido de Maria José

(8 Maggio 2012)
Il cerchio si è chiuso. Ho scoperto chi è Maria José.
Era da un po’ di tempo che, raccogliendo le informazioni di questi sette mesi passati in compagnia del mio virtuale alter ego telefonico, che mi sembrava di essere arrivato alla soluzione del mistero. Oggi, però, c’è stata la svolta finale.
Ma facciamo un riassunto.
Arrivato il 4 settembre del 2011, dopo un paio di giorni ho comprato una scheda prepagata con Movistar, che tuttora mantengo, pur essendo passato a un contratto. Dopo pochi giorni, ho iniziato a ricevere messaggi e chiamate disperatamente in cerca di una Maria José. La cosa che più mi sconvolgeva era che, quando io rispondevo al telefono, gli interlocutori tranquillamente mi chiamavano “Maria José” e si presentavano. Eccheccazzo.
La prima svolta è stata con l’SMS di Ricardo, che le chiedeva il secondo cognome per preparare un certificato per una Fondazione, di cui ha scritto il nome nel sms. Cercando su google questa fondazione, ho scoperto che si trovava in Estremadura, regione del sud-ovest della Spagna, e dunque MJ molto probabilmente è del sud. Ma poteva essersi recata lì per lavoro. Questo si univa a una inquetante telefonata ricevuta Juana della Coca-Cola (in relatà, era un messaggio in segreteria) che le comunicava, con voce seria, che “i documenti sono pronti. Chiamami”. La povera Juana starà ancora aspettando.
Le vacanze di Natale hanno mostrato quanto siano old style gli amici di Maria José: sono stato tempestato di sms (tutti diretti a lei, ovviamente) di auguri, quasi tutti dei semplici copia-incolla inservibili ai fini della ricerca, anche se ben contestualizzati nella Spagna del 2011: ad esempio, una certa Rita le augurava un anno “con alcuni più e alcuni meno: più felicità, e meno crisi economica”. Due sms davano qualche informazione in più: quello di Antonio, che le mandava i suoi affettuosi auguri da Tenerife… e quello dell’ amiga-amiga.
L’amiga-amiga di Maria José chiedeva alla nostra beniamina se fosse già tornata a Siviglia per le vacanze, in quanto la loro amica comune Lida voleva organizzare una cena. Finalmente! Era la prova definitiva che Maria José è del sud della Spagna, è Andalusa, almeno di origine, e non vive più lì. La povera Lida non l’ha potuta invitare per causa mia.
La terza svolta fu la foto ricevuta via whatsapp. Era la foto dell’orchestra sinfonica di una provincia dell’Estremadura, in occasione del suo XXX anniversario. Tombola. Due indizi fanno una prova: MJ vive in Estremadura.
Unendo le informazioni raccolte, tra facebook e google mi ritrovavo con due-tre potenziali MJ, anche se in realtà poteva anche non essere nessuna di loro.
Poco fa, la quadratura del cerchio. Mi arriva una chiamata da un numero a me sconosciuto, rispondo sapendo già che era per Maria José, e…:
-          Si?
-          Hola… Maria José C——o?
-          No… lo siento, se ha equivocado.

Sì… tu te has equivocado, però io no. Io ora conosco il cognome di Maria José. Ho scoperto chi è, e l’incarico importante che aveva.
Un incarico che ha lasciato dopo le ultime elezioni.


Entrevistas

(26 aprile 2012)

Oggi uno studente si è avvicinato alla mia cattedra all’inizio della lezione:

- Ciao Gaetano, vorrei chiederti una cosa… tu ne sai qualcosa di Cina?
- …
- …
- In che senso?
- Ho un amico che studia giornalismo e cercava qualcuno a cui fare una intervista per parlare della Cina e della sua attività commerciale e visto che tu insegni Economia Internazionale ho pensato che magari sei un esperto…
- …
- …
- Beh esperto non direi…
- …
- …Però di’ pure al tuo amico che può passare oggi pomeriggio nell’orario di ricevimento.
- Grazie!

Due ore dopo, alla fine della lezione, sono passato in ufficio e ho controllato la casella e-mail, dove ho trovato un messaggio da parte dello studente di giornalismoche complicava un po’ la questione:

Ciao Gaetano, J. mi ha dato il tuo contatto per l’intervista, come ti ha spiegato vogliamo discutere, da un punto di vista economico-empresarial,e dell’espansione delle attività commerciali di proprietà di cinesi a Valencia, e J. mi ha detto che tu sei un intenditore”.

Io un intenditore? Tutto quello che so è che la titolare del bar sotto casa mia è cinese e io lì compro le sigarette e che vado spesso a “La Tienda del Barrio” che, a parte il nome, non ha nulla di spagnolo, per comprare utensili o altri oggetti per la casa, cinesi come i proprietari, ma come esporre queste due righe in modo professionale?
In realtà è la terza volta che vengo intervistato qui a Valencia. La prima volta è stata una ragazza di Canal 9 per strada: il Comune aveva appena approvato un codice molto restrittivo per le bici, con supermulte per chi andava fuori dalle piste ciclabili, o usava auricolari, o magari aveva una bici brutta o ruttava mentre pedalava, e io stavo tranquillamente andando in ufficio con la mia bici Eugenia. La ragazza mi bloccò e mi chiese, in Valenciano:
- Ciao, posso farti un’intervista sulle nuove regole per le bici?
- Sì… ma non parlo valenciano e sono straniero…
- Non importa, facciamo in spagnolo! Cosa ne pensi delle nuove norme per i ciclisti?
- Onestamente… anche se alcuni ciclisti sono spericolati, credo che il Comune lo faccia solo perché non ha soldi, ma mi sembra un modo un po’ ridicolo di cercare risorse, e soprattutto per chi guida automobili in modo pericoloso o parcheggia in sosta vietata, ad esempio quando ci sono le partite, non fanno nulla. Iniziassero da lì invece di disincentivare l’uso della bici
- ….
- ….
- Ehm
- Posso andare?
-  Grazie…

Dubito fortemente che Canal 9 abbia mandato in onda il mio sermone inviperito da “sono-sveglio-da-30-minuti-e-odio-Rita-Barberá”.
L’altra intervista che ho avuto era l’unica programmata, ed è stata la più drammatica. Per un programma televisivo, lo scorso 1 febbraio dovevo registrare un’intervista sulla crisi dell’euro e sui 20 anni del mercato unico europeo: io, con il mio spagnolo zoppicante. E, come se non bastasse, con il mio boss lì presente e con una ferita in via di rimarginazione sul mento (che guastava la mia seppur inesistente telegenia), per una piccola operazione che avevo subìto. Dopo l’intervista mi ritenevo piuttosto soddisfatto, ed ho anche ricevuto i complimenti del boss.
Peccato che poi l’intervista – questa sì – sia andata in onda. E che io mi sia accorto di aver detto – almeno nello spezzone che hanno inserito – solo un certo numero di ovvietà intervallate da una serie di “Hmmm”, e mi ero riproposto che mai più mi sarei lasciato trascinare in una figura di merda e che dovevo ricominciare la mia vita da zero e invece no, continuo imperterrito e tra mezz’ora andrò di nuovo a segno.

Un anno da migrante


(15 Aprile 2012)


Esattamente un anno fa lasciavo l’Italia per trasferirmi a Francoforte, prima, e a Valencia, poi. Scrivere su questo blog le mie rimembranze sentimentaliste è un uso un po’ improprio del mezzo, ma farò finta di niente.

Quando me ne andai da Bologna dicevo “non sono io a lasciare Bologna, è Bologna a lasciare me”, lamentando il fatto di non essere riuscito a trovare opportunità lavorative concrete che mi facessero restare. La realtà è che no, io non ho fatto nulla per restarci, e volevo andare via, e nonostante questo ogni volta che ci sono tornato in questi dodici mesi mi ha fatto molto effetto: in realtà, soprattutto fino a quando ero ancora a Francoforte, sono tornato così spesso che quasi non mi sembrava di essere andato via, visto che una volta al mese mi trovavo lì.

Vivere da migrante ti insegna tante cose. Su di te, sul mondo, sul tuo modo di porti con il prossimo. Ti insegna a contare solo su te stesso nei momenti in cui ti sembra di non farcela più. Ti insegna, piano piano, a non sentirti diverso dalle persone che frequenti per il semplice fatto che loro hanno ancora delle radici, e legami solidi, e tu, invece, sei tabula rasa. Ma la lista di ciò che si impara vivendo da emigrato è molto lunga.

Avere difficoltà a staccarsi può costare molto caro. Per la precisione, 570 euro. Questo è quanto ho speso in biglietti aerei nei primi cinque mesi dell’anno iniziato il 16 aprile 2011, per tornare a casa. Per finire con il lavoro rimasto in sospeso a causa della partenza inattesa, per rivedere gli amici che per te sono quasi una famiglia, per tanti motivi che insomma valevano molto di più del denaro. E’ facile, così facendo, rimanere con le pezze al culo.

“You don’t know what you’ve got till it’s gone”. Per ben due volte in un anno, il 2011 mi ha insegnato che quando si dice addio ad un luogo, e a delle persone, e solo in quel momento, si riesce davvero a valorizzare tutto quello che si aveva. Se penso ai legami che ho lasciato a Bologna, e quelli creati a Francoforte, ancora non mi capacito di quanto sia stato fortunato, soprattutto io che tendenzialmente, invece, sono uno sfigato cronico. Questa è la più grande lezione che ho imparato lo scorso anno. E, per quanto abbia anche imparato a tenere stretti quei rapporti, il vuoto lasciato è molto, molto grande.

Sono destinato a vivere sotto governi di destra. Facciamo un po’ i conti: lascio l’Italia, e pochi mesi dopo Berlusconi cade. Arrivo in Spagna, e pochi mesi dopo l’era Zapatero finisce – nel peggiore dei modi – per lasciar posto al Partido Popular che, a parte la politica economica (che meriterebbe un’analisi molto, molto noiosa) sta annunciando (per il momento, solo annunciando) riforme nel campo dei diritti civili che riporterebbero la Spagna al… beh, al livello dell’Italia. Vedremo che succede. La lezione è che mai si dovrebbero dare per scontate certe conquiste.

La “fase dell’aggiustamento” può arrivare senza la “fase della negoziazione”. Gli psicologi dividono lo shock culturale risultante dall’andare a vivere all’estero in quattro fasi: 1) la luna di miele (ossia “tutto qui è bellissimo, come ho fatto a non venirci prima”, tipicamente i primi 3 mesi); 2) la fase della negoziazione (“qui nessuno mi capisce, mi manca la mia casa e mi stanno tutti sulle balle”, dal terzo al sesto mese); 3) la fase dell’aggiustamento (“beh no dai mi sbagliavo, qui sto proprio bene”, dal sesto al dodicesimo mese); 4) la fase della padronanza ossia “sono più indigeno degli autoctoni”. Con Valencia non ho vissuto una vera e propria fase 2. Ma mi sembra di essere entrato in punta di piedi nella fase 3, ora che già mi sento di fare programmi per il futuro, ora che (adesso posso ammetterlo) non mi capita più di pensare che se non mi trovo più bene posso sempre tornare in Italia. Ho anche messo in cantiere di iniziare a studiare Valenziano da settembre, e ogni tanto mi avventuro a dire qualche parola. Questo passaggio così scorrevole ha un nome e un cognome che vanno ben oltre le fasi dello shock culturale, lo so.

Sono appena tornato da un viaggio itinerante in Italia, dove una delle tappe è stata ovviamente Bologna, e stavolta, per la prima volta, andandomene, l’ho salutata come una vecchia amica che presto – non so quando – rivedrò, non come la casa che ho lasciato piena di ricordi. Per la prima volta, prendendo l’aereo da Pisa alla fine del viaggio, sentivo che stavo tornando a casa, ma questa volta a Valencia.

Spanglish vs. Italiese

(1 Aprile 2012)

Gli spagnoli e gli italiani affrontano il dilagare della lingua e della cultura anglosassone in modo diverso. Spesso noi facciamo battute riguardo alla pronuncia spagnolizzata di molte parole del vocabolario inglese, o al fatto che gli spagnoli traducono molte espressioni anglosassoni nella loro lingua, il che ce le fa sembrare strane.
E così, da un lato, Spiderman viene pronunciato espíderman, il ketchup ketchúp e MacGyver diventa Macguíver; dall’altro lato, il mouse qui è un ratón, il computer ordenador e Gray’s Anatomy si trasforma in Anatomía de Gray, mentre Desperate Housewives è un semplice Mujeres Desesperadas.
I due popoli latini condividono, tra le altre cose, il fatto di chiamare la band irlandese U2 in lingua propria, e cioè U Dos a sud del Pireneo e U Due in Italia.
Ma siamo sicuri di poterli criticare, dal basso della nostra inglesizzazione dominante, che ci porta a usare l’inglese anche quando è totalmente inutile?
In particolare, l’esperienza mi sta mostrando che l’approccio italiano e quello spagnolo hanno una differenza fondamentale: noi assorbiamo le parole inglesi e gradualmente cancelliamo dal parlato termini del tutto equivalenti nella nostra lingua, mentre nel caso del castigliano, anche se è molto meno frequente, le parole vengono assorbite modificandone la pronuncia e/o la scrittura così come sarebbero se l’origine della parola fosse proprio spagnola.

Ed ecco un campionario di parole che farebbero rivoltare nelle rispettive tombe Shakespeare, Cervantes e Dante Alighieri:
Spagnolo: football si dice e scrive fútbol, junkie è yonqui, leader diventa líder, cocktail coctél e chi più ne ha più ne metta. Ho anche letto sulla vetrina di un fotografo che lì si potevano far aggiustare le foto con Fotochop.
Italiano: non si va a passeggiare, si fa walking; le presentazioni in aula sono fatte con le slide, non si beve una vodka con succo d’arancia o di limone ma rispettivamente un vodka orange o vodka lemon, in palestra si va a fare fitness, io sto scrivendo questo post sul mio laptop, talvolta ci si saluta scrivendosi kiss, la gente cool va ai party e Dario Di Vico in un articolo sul Corriere della Sera di pochi giorni fa ha evidenziato come IKEA abbia successo “(…) anche nel food”, come se poi ciò che si mangia nei centri IKEA non possa essere definito “cibo” o l’attività di riferimento “ristorazione”. In aeroporto bisogna fare check-in. E su internet c’è chi si avventura a commentare con sonori LOL, ROTFL, IMHO eccetera. (Volevo evitare di scriverlo, ma c’è anche chi dice che le cose divertenti siano lollose. Lollose. Voglio Morire.) Senza dimenticare che il prodotto Carefree anche nella pubblicità, in Italia, viene chiamato C-a-r-e-f-r-e-e, così, come lo pronunceremmo se fosse nella nostra lingua.

Il problema è che noi ci siamo così abituati a sentire l’inglese usato in maniera impropria, molto spesso da persone che magari nemmeno lo masticano, e inserito come il prezzemolo in conversazioni banali, che nemmeno ce ne accorgiamo più.

E così ridiamo dei telefilm Perdidos ed El Mentalista senza ricordare che, ad esempio, un tempo si andava in ospedale a fare degli esami, non il check-up, e che, se è vero che gli spagnoli amano volare con una compagnia che chiamano Rianér (pronunciata così anche dagli altoparlanti degli aeroporti) perché è economica e usano sempre di più degli aggeggi detti Esmartfon, noi siamo pur sempre quelli che, invece di andare a correre, fanno jogging o footing , che hanno chiamato un Ministero, cazzo, un Ministero, “Ministero del Welfare” e che se volessi potrei continuare con questa lista all’infinito.
Peggio noi.

Vivere in Spagna ai tempi de Los Recortes

(28 Marzo 2011)
Oggi parliamo di economia. Ma in termini un po’ così, una specie di economia cacio e pepe, la mia economia domestica: in altre parole, la mia vita ai tempi della crisi.

Visto che il destino, anche quando non lo metto in conto, mi fa muovere in direzione ostinata e contraria, mi sono trasferito a Valencia nel Settembre 2011, quando parte della valanga di italiani trasferitisi nella “Spagna dei Balocchi” nel decennio precedente iniziava il suo mesto rientro in terra natía, dopo aver perso il lavoro o l’attività in Spagna a causa della recessione. Negli ultimi tempi, in Spagna come nel resto dell’Europa cosiddetta periferica, il governo centrale e quelli locali tagliuzzano qua e là la spesa pubblica e aumentano le tasse, nel vano tentativo di raschiare il fondo di un barile ormai vuoto.

Ahimé, se in italia il compito spetta al cosiddetto “SuperMario”, in Spagna c’è “Super(?)Mariano”, ossia Mariano Rajoy che, con la manovra dello scorso gennaio, non si è risparmiato.

Molti economisti criticano l’ansia fiscale dell’Unione Europea dicendo che le manovre a cui stiamo assistendo risulteranno in una recessione ancora più dura. Il ragionamento è semplice: le manovre restrittive (tasse più alte, tagli alla spesa e ai contributi sociali, introduzione di ticket anche per respirare l’aria di casa) riducono il reddito disponibile per consumi.

C’è però un secondo problema, che è la tanto citata perdita di competitività dei Paesi del sud Europa, anche dovuta a un costo del lavoro unitario cresciuto troppo negli ultimi anni. (Attenzione, qui arriva il primo fraintendimento: non sono i salari ad essere cresciuti troppo, sono i salari in relazione alla produttività. Come risolvere il problema? “Tagliando i salari” è la risposta che va di moda nella Collezione Primavera/Estate 2012 dell’UE. Se è vero che misure e riforme per stimolare la produttività hanno effetto solo nel medio periodo, che aspettiamo a metterle in pratica? Perdincibacco.)

Il problema è che così il reddito disponibile si riduce ulteriormente, deprimendo a sua volta i consumi, e allontanando la ripresa.

Per capire un po’ come funziona questo circolo vizioso che ci sta trascinando nella seconda recessione in 4 anni, vediamo un po’ la storia del consumatore-tipo: io.

Appena arrivato qui, un po’ per necessità (dovevo comprare un sacco di cose per la casa nuova) un po’ per ansia da bella vita (“ma qui è tutto economico! spendiamo!”), mi sono dato alle spese allegre, dilapidando tutti i miei (magri) risparmi.

…Poi è arrivato il 2012. E sono arrivati:
-          L’aumento dell’ IRPF (come l’IRPEF italiana)
-          L’aumento del biglietto del bus e della metro a Valencia
-          L’aumento del menu del pranzo in facoltà
-          L’aumento della bolletta della luce
-          L’aumento del giramento di coglioni e di tante altre cose.

Mi sono fatto due conti in tasca e tutte queste cose insieme hanno ridotto il mio potere d’acquisto di circa il 18% (!).

Ed io, consumatore-tipo, ho risposto così:
Il pranzo sociale in facoltà è sostituito da un più triste, asociale e modesto pranzo in ufficio con cibo portato da casa (nella foto, un piatto di pasta con le melanzane e una mela modello “fuji”):

La metro si prende solo se è inevitabile. Per tutto il resto c’è la mia bici Eugenia (davvero, l’ho chiamata così), a cui la settimana scorsa ho rotto un pedale.
In casa ho due stufe (casa mia non ha il riscaldamento, come quasi tutte le case qui a Valencia). Fino all’inizio di febbraio di sera le usavo entrambe; dopo aver ricevuto la bolletta 15 gennaio-15 febbraio pari a 142 € questo è il nuovo modo di non prendere freddo in casa:

Provo una sensazione di empatia verso i manifestanti nelle proteste quotidiane che si vedono a Valencia:
 … insomma, la vita ai tempi della crisi del debito è fatta di sacrifici e autoironia.

Conclusione seriosa:

Io penso che i tagli, los recortes, siano un male necessario per alcuni capitoli della spesa pubblica, dove gli sprechi, negli anni di bonanza, hanno avuto la meglio. E sono anche una lezione per i Paesi che “si sono comportati male”.

Ma concordo con i molti economisti che hanno dubbi sull’opportunità, in questo momento, delle misure che si stanno adottando. E’ importante sì rimettere i conti pubblici su un percorso sostenibile, ma bisogna ricordare che la sostenibilità dipende (1) dal valore assoluto del debito e (2) dall’andamento dell’economia (grezzamente, il PIL).

Purtroppo, sorge il dubbio che il conservatorismo (economico) cieco che guida le scelte dell’UE solo consideri il punto (1), che la potenza di lobby piccole e ben organizzate faccia sì che i governi preferiscano un danno generalizzato (aumentare le imposte) ad un intervento sacrosanto (rendere più competitivi i mercati finali, per ridurre i prezzi tramite una riduzione dei margini dei profitti, piuttosto che dei salari), e che qualsiasi piano di rientro del deficit dovrebbe essere ragionevole, oltre che “necessario”. E, infine, che los recortes sono socialmente accettabili (e meno iniqui) solo se tutte, proprio tutte le categorie sociali ed economiche fanno la loro parte, e così, purtroppo, non è.

Una foto misteriosa (*)

(26 Marzo 2012)
Venerdì scorso, per la prima volta, ho ricevuto un messaggio per Maria José via Whatsapp. Ed era una foto.
(Se qualcuno non sa ancora chi è MJ, alias la donna più ricercata di Spagna, qui potrà chiarirsi le idee)
La foto in questione era quella di una orchestra. In particolare, la foto dell’ anniversario dell’ Orchestra Sinfonica ufficiale di una diputación (provincia) dell’Estremadura, una regione del sud della Spagna, tra Andalusia e Portogallo.
Messaggi ricevuti in passato, in particolare uno di auguri di Natale, mi hanno fatto scoprire che MJ è originariamente andalusa, di Siviglia, ma non vive più lì, e quest’ultimo implicherebbe che si è trasferita in Estremadura.
In un impeto da 007 de’ noartri, ho iniziato le ricerche su google, sono stato reindirizzato su facebook, ho trovato la pagina dell’orchestra e anche la foto da me ricevuta, ho cercato tra tutte le foto un commento, un me gusta , un post qualsiasi da parte di una Maria José che potesse finalmente svelare il mistero.
Maria José è una musicista? Oppure lavora per la diputación (il che renderebbe interessante il messaggio con tanto di “richiamami” da me ricevuto tempo fa, che era da parte di una persona della Coca Cola Co.)? O ha una figlia, che suona nell’orchestra? Ad ogni modo, ora so chi mi ha inviato la foto: la stessa persona che l’ha postata sulla Pagina Facebook dell’Orchestra.
Sperando di riuscire a scoprire qualcosa di più, ho risposto al messaggio ringraziando sentitamente ma, ahimé, non ho ricevuto risposta.
Maria José, sono a un passo dal trovarti.

(*) Notare il mio genio, che ha prodotto un titolo che vale in Italiano, Spagnolo e Catalano. Mi sento di un passo più vicino alla poltrona di Segretario Generale delle Nazioni Unite.

Maria José: il ritorno


(20 Marzo 2012)
Maria José è tornata, e la sua storia è più avvincente che mai.
Oggi, uscendo dalla palestra, ho trovato un messaggio in segreteria da un numero a me sconosciuto, ho chiamato l’ 123 (la segreteria) ed era il seguente:
Sconosciuta: Maria José, sono Roser (nome di donna, nda). Ho capito che non vuoi rispondermi ma fa lo stesso. Domani ti chiamerò di nuovo, verso ora di pranzo.
Cos’è successo a Maria José? Perché sta evitando Roser?” ho pensato, colto dall’ansia del pettegolezzo. Stavolta ho pensato che non potevo far finta di niente, così, con la scusa del messaggio superserio ricevuto poco prima, ho deciso, mentre cucinavo, di telefonare a Roser. A metà del primo squillo, però, mi sono pentito, o forse vergognato, e ho buttato giù, pensando che un sms sarebbe stato più appropriato. Mentre lo scrivevo, però, il mio telefono ha cominciato a squillare, ed era proprio Roser. E così ho risposto.

Gaetano: “Ehm, Hola”
Roser: “…”
Gaetano: “…”
Roser: “Mh… Maria José?”
Gaetano: “No, io mi chiamo Gaetano, però sono mesi che mi chiamano persone in cerca di Maria José”
Roser: “…”
Gaetano: “…Normalmente faccio finta di nulla, ma non ho potuto evitare di ascoltare il suo messaggio e preoccuparmi”
Roser: “Ah, ehm, ar…”
Gaetano: “…e ora le stavo mandando un messaggio per dirle che questo non è il numero di Maria José”
Roser: “Ah.. mi dispiace… cancello subito il suo numero…”
Gaetano: “Davvero, non sono Maria José”
Roser: “Sì sì, va bene… scusa ancora…”
Gaetano: “Di niente, spero che potrà parlare con Maria José”
Roser: “…”
Gaetano: “Adios!”
Roser: “Adios, e scusi il disturbo”

Non ci posso credere. Ho detto “Davvero, io non sono Maria José”. Ma soprattutto, mentre dicevo “Spero che potrà parlare con Maria José” mi sembrava di essere fuori dal mio corpo e di guardarmi incredulo dall’esterno, sconvolto dalla facilità con cui stavo dicendo una stronzata del genere. E mi veniva da ridere.
Maria José, credo che hai un po’ di cose da raccontarci…

Sobrevivido

(20 Marzo 2012)

È finita.

Dopo tre settimane di scariche di petardi, ma soprattutto una cinque giorni conclusiva che sembrava una maratona, le Fallas si sono concluse.

Ed ecco a voi il mio Bilancio personale delle Fallas:
1) Ho rivisto il mio migliore amico, che non rivedevo da Natale, e siamo stati insieme per quattro giorni.
2) Il mio conto in banca è sceso di 270 euro e io non ho la più pallida idea di come ho speso questi soldi.
3) La falla più brutta di Valencia era quella sotto casa mia. Lo chiamavano Karma. Io l’ho ribatezzata “la falla lesbica” perché era una specie di testa androgina con casco ed occhiali da moto, sulla quale hanno posto una motocicletta (…).
4) Ho bevuto più alcool che acqua.
5) Così come qualsiasi altra legge a Valencia, anche il mio “aver smesso di fumare” (a chi voglio raccontarlo ormai…) è stato sospeso, visto che in 4 giorni ho fumato almeno 2 pacchetti di sigarette.
6) Ho calpestato una chiazza di vomito.
7) Un gruppetto di quattro signore 60enni ubriache ci ha provato con me in Calle Literato Azorín quando ho chiesto loro un accendino.
8) Sono in debito di sonno per il resto dei miei giorni. Urge l’arrivo del sonno eterno.
9) Oggi ho la tosse e anche il raffreddore e la primavera qui è iniziata con un calo delle temperature di 7-8 gradi.
10) …E, nonostante tutto, i petardi che venivano scoppiati, la folla ovunque, i ristoranti tutti pieni e i camerieri esauriti non mi hanno stremato più di tanto, forse perché in questo periodo per tanti motivi sono particolarmente (e stranamente) felice, o almeno sereno, e forse perché questa città mi sta portando fortuna.


Diez Cosas

(14 Marzo 2012)

Le Fallas sono iniziate definitivamente il 1 marzo.
Il delirio a Valencia cresce in modo esponenziale ogni giorno che passa, in vista del 19 marzo, quando ci daremo tutti fuoco, i bambini e gli adulti cercano di farti venire l’infarto con petardi sempre più potenti, ma soprattutto si scoprono cose che uno non avrebbe mai immaginato.
Ed ecco quindi a voi dieci cose che dovreste sapere sulle Fallas e non avete mai osato chiedere immaginare:
1. In Fallas i bambini fanno a gara a tirare petardi. Se sono troppo piccoli per farlo, vengono sostituiti dai genitori o dai nonni, e tu ti chiedi perché.
2. In Fallas anche la sindaca-monarca di Valencia, Rita Barberá, si ubriaca e tira petardi, per cui possiamo ribattezzarla Rita Petardá, e io ne ho le prove:



3. In Fallas puoi tornare a casa dopo il lavoro e scoprire che hanno piantato davanti al tuo portone un bagaglio allegorico a cui daranno fuoco l’ultima sera. Per quella sera, ricordati di ritirare i panni che avevi steso sul balcone.
4. In Fallas, a Valencia, si fanno fuochi d’artificio in Plaza de l’Ayuntamiento ogni giorno alle 14 per 19 giorni, e si chiama Mascletá. Poiché il Comune è con le pezze al culo, il nuovo nome ufficiale della Mascletá è Mascletá patrocinada por Helados Nestlé, versione globale de las Fallas.
5. La festa finisce il 19 marzo, ma siccome finisce a tarda notte, l’Università e le sculoe il giorno dopo aprono più tardi.
6. Può capitarti di camminare in una strada un tempo a te nota, svoltare l’angolo e trovare gente che sta cucinando paella in mezzo alla strada.
7. La metropolitana di Valencia sotto Fallas è il remake di “Autostrada per l’Inferno”.
8. Per legge, la Fallera Mayor (miss Valencia in versione Principessa Leila, vedi l’ultimo post) deve commuoversi durante la Mascletá:

9. In Fallas, l’unico modo per fuggire dal suono dei petardi è andare fuori città. Di almeno 200 Km.
10. In Fallas, anche la gente di mezza età suole star fuori fino a molto tardi e ubriacarsi.


Senyor Pirotècnic


(26 Febbraio 2012)
E così, domenica 26 febbraio sono ufficialmente iniziate le Fallas. Le Fallas sono la Festa di Valencia, la Festa con la F maiuscola, l’elemento che più caratterizza Valencia nel mondo insieme all’America’s Cup 2007, la Città delle Arti e della Scienza di Calatrava, e gli scandali di corruzione.

Molta gente nel mondo le conosce, magari per sentito dire o per luoghi comuni. Ad esempio, più volte mi è capitato di sentirmi dire cose del tipo “ah vivi a Valencia? è a Valencia che c’è quella festa, come si chiama, Felle…” o “è a Valencia che a San Giuseppe danno fuoco a tutto?” o cose del genere.

Insomma: io vivo qui oramai da 176 giorni e un giorno sì e uno no ho sentito la parola Fallas, eppure ci ho messo diversi mesi a capire cosa cazzo siano las Fallas. Intendo dire letteralmente. Perché tutti i valenciani, di nascita o di adozione, che ho conosciuto qui, me ne hanno parlato, chi bene, chi male, chi con gli occhi luccicanti per l’orgoglio e chi con i conati di vomito. Ma per un non valenciano è davvero difficile capire il perché de las Fallas. Ho perso il conto dei “è il tuo primo anno a Valencia? Joder, allora vedrai a marzo…” oppure “non sei mai stato qui per Fallas? Davvero? Beh, preparati” o ancora “ti avviso: quello che vedi ora, la città che conosci, in Fallas sarà tutta un’altra cosa” e per finire “non puoi assolutamente perdere las Fallas, almeno il primo anno. Dall’anno prossimo puoi iniziare a fuggire”. Il problema è che, per settimane, ho avuto questa domanda che mi ronzava in testa, e che a turno facevo ai malcapitati: “Ma cosa sono le Fallas? Intendo dire: che vuol dire f-a-l-l-a-s?” e nel frattempo cercavo di collezionare le informazioni raccolte, ma le risposte non riuscivano a risolvere i miei dubbi, o magari ero io a non capire parte di quello che mi veniva detto, e così lo avrò chiesto mille e più volte, e la risposta alla domanda è sempre stata diversa:

-  “Beh, ci sono i fuochi d’artificio alle 14 tutti i giorni in Plaça de l’Ajuntament e la Rita Barberà sul balcone con la Fallera Mayor”.
-  “In ogni quartiere ci sono i casal falleros che sono i circoli dove si riunisce la gente del casal e anche le falleras e in quei giorni fanno sempre feste”
-  “Si mettono delle grandi costruzioni di cartapesta in tutti gli incroci più importanti della città e la circolazione è impossibile”
-  “…”
-  “E gli ultimi giorni c’è festa fino alle 4 del mattino e i bambini scoppiano continuamente petardi e tu vorresti ucciderli”
-  “Ci sono valenciani che sono pazzi per le Fallas e altri che scappano, perché in fondo è vero, la città diventa un delirio.”
-  "L’ultima sera, la sera della cremà, si da fuoco a tutto”
-   “Vedrai.”
-   “L’Università chiude negli ultimi giorni”
-   “Le Fallas sono il 50% del PIL della città di Valencia”
-   “Durante Fallas tutti sono più simpatici”
-   “Le Fallas sono la festa più grande di tutta la Spagna”

… E via dicendo. Insomma, oggi è iniziato tutto, ma nel frattempo, in questi 176 giorni, ho capito cosa sono le Fallas.

Las Fallas è una festa laica di cui ignoro l’origine e le Fallas, in senso stretto, sono delle enormi costruzioni allegoriche di cartapesta e altri materiali altamente combustibili che vengono sparse per la città, mentre un esercito di Falleras, giovani donne che indossano costumi tradizionali e portano i capelli come la Principessa Leila di Star Wars, popolano le strade e offrono cene alla gente dei loro casals. Ogni giorno dal primo al 19 marzo (ma anche l’ultima domenica di febbraio), alle 14, la Fallera Mayor, una sorta di Miss Valencia con i capelli alla Principessa Leila e col vestito più costoso di tutte, la Fallera che ha battuto tutte le altre principesse Leile ed è riuscita così a diventare la star delle Fallas dell’anno, dal balcone del comune, accanto alla sindaca, invita il senyor pirotècnic ad iniziare le danze coi fuochi d’artificio. Ho anche capito altre cose. Ad esempio, che non dormirò per giorni, che rischierò l’infarto causa petardi ogni 5 minuti, che i miei alunni vorranno andare a vedere la mascletà alle 14 e mi chiederanno di finire la lezione in anticipo, e che in realtà, anche se nessuno lo sa, la parola Fallas è un acronimo che sta per:

Fuoco
Alcool
La Principessa Leila
Le notti in bianco che mi toccherà passare
Alcool
Se non avete notizie di me sono morto.