mercoledì 28 novembre 2012

Yo soy un berlinés

Il prossimo fine settimana andrò a Berlino. L'idea di andare è nata per motivi di lavoro, per partecipare ad una conferenza, ma fortunatamente l'utile poi si è unito al dilettevole, perché alla fine due miei amici (dall'Italia e dall'Olanda) saranno lì in vacanza proprio nello stesso week-end, e così faremo una bella rimpatriata.

Vediamo di chiarire subito una cosa: io amo Berlino. Mi piace da morire. Se dovessi andarmene da Valencia farei di tutto per trasferirmi lì (o a Copenhagen o a Stoccolma), nonostante io in tedesco sappia dire poco più che kartoffen, Angela Merkel, "Tchuss!", Lufthansa e danke.

Sono stato a Berlino già cinque volte, una alla veneranda età di 8 anni, una in gita di quinta liceo e le ultime tre volte tra il 2009 e il 2011, per vacanza o per lavoro.

Senza dubbio, però, fu l'ultimo viaggio a Berlino che, per me, passò alla storia, a causa delle disavventure che ho vissuto e per le quali, quella volta, mi sono davvero superato.

Era la mattina del 25 novembre del 2010, vivevo ancora a Bologna e mi stavo preparando per andare a Berlino per una conferenza. La conferenza iniziava la mattina seguente, e io venivo da un paio di settimane difficili a causa di una fortissima congiuntivite all'occhio destro che mi aveva reso impossibile indossare le lenti a contatto, almeno per un paio di giorni in più, quando avrei concluso la cura.

Il volo Easyjet partiva alle diciotto da Milano Malpensa, per cui avevo preso un biglietto del treno da Bologna a Milano Centrale, alle due, e poi sarei salito sull'autobus diretto all'aereoporto.
Mentre mi facevo la doccia sentii un tonfo imponente, come se fosse crollato il mobiletto del bagno: ed in effetti, quando uscii, con timore, dalla doccia, vidi che la roba accatastata in cima al mobiletto (le scatole delle fialette anticaduta: sì, anch'io ho cercato inutilmente di fermare la calvizie), sopra alla quale si trovavano i miei occhiali, era crollata a terra. Sotto la massa informe giacevano i miei occhiali, con una delle due lenti completamente sbriciolata.

Imprecai per la rabbia: non avevo occhiali di emergenza e non potevo mettere le lenti a contatto. E così, decisi di giocarmela, andando a prendere il treno da cieco (nota: mi mancano 5.5 gradi a ogni occhio. Sì, appunto.)

Arrivato a Bologna Centrale, miracolosamente riconobbi il treno Alta Velocità che dovevo prendere e il numero del vagone era scritto sufficientemente grande; ciò che era troppo piccolo erano i numeri delle poltrone, per cui non riuscivo a capire dov'era la mia. Mettermi gli occhiali frantumati - che pure avevo con me - non era un'opzione, e così feci il vago, arrivando a metà carrozza: lì mi accorsi, mentre fingevo di sedermi, di essere andato troppo avanti e tornai indietro contando le file.

Arrivato alla mia poltrona, misi le mani nelle tasche e mi accorsi di non avere né il portafogli, né il cellulare.
In quello stesso momento il treno partiva da Bologna, diretto - senza fermate intermedie - a Milano, che ne sarebbe stato di me? Ero al punto di farmi prendere da un attacco di panico, quando pensai che potevo aver lasciato il tutto alla prima poltroncina e, per fortuna, ritrovai entrambi gli strumenti vitali proprio lì.

Mentre riflettevo su come fossi stato fortunato, arrivai a Milano. Una corsa al lato della stazione e il Malpensa Express fu mio, dopo aver lasciato il trolley nel bagagliaio: tutto filava così liscio, nonostante gli occhiali mancanti!



Ma fu a Malpensa che la peggiore delle sorprese si manifestò. Scesi dal bus al terminal 2, mi avviai verso i controlli, quando fu il mio turno aprii il bagaglio a mano per estrarre il pc e in quel momento mi accorsi che la borsa a tracolla dove lo avevo messo era vuota.

Mi si gelò il sangue. Non so con quali poteri soprannaturali feci come se nulla fosse, passai il metal detector, richiusi la valigia e mi avviai verso il gate, mentre, freneticamente, cercavo il mio cellulare per chiamare la mia coinquilina di allora affinché mi confermasse l'impossibile, ossia che avevo lasciato il pc a casa.

"Gae... io lo sto cercando ma qui non c'è..." mi disse, mentre rovistava in diretta telefonica.
"Porca puttana. Infatti lo avevo messo. Cazzo, me lo hanno rubato. Lì c'è tutta la mia vita. E ora che faccio? Come faccio ad andare a Berlino? Non ho nemmeno la presentazione che devo fare!"
"..."

[NOTA: che ci fosse dentro "tutta la mia vita" può sembrare un'esagerazione delle mie, ma non lo è. Persi un mese e mezzo di lavoro, oltre a tanti ricordi che non avevano avuto il backup]

Chiamai i miei genitori, mi sfogai con una scena madre fatta di lacrime e sangue che tuttora credo sia celebre nei racconti dei lavoratori di Malpensa, ma alla fine partii e riuscii a farmi preparare ed inviare la presentazione grazie all'aiuto della mia coinquilina, che trovò il mio hard disk, e di un collega.

La conferenza filò liscia, e io acquisii anche una personalità, "il ragazzo a cui hanno rubato il pc" (normalmente seguito da un: "Ma... qui a Berlino?" "No no, in Italia", "Ah, ecco").

L' invited speaker della conferenza, poi, era un pezzo grosso: diciamo che lui sta alla macroeconometria (quella cosa strana su cui lavoro io) come Gandhi sta alla nonviolenza. Io passai inosservato, ovviamente, ma lo rividi 2 settimane dopo, il 10 dicembre, in un altro incontro a Roma, dove presentavo lo stesso lavoro.
A pranzo, era seduto di fronte a me e, mentre ci parlavo, azzardai:
"Siamo entrambi stati al workshop del 25 novembre!"
"..."
"..."
"Ah, a Berlino! Non mi ricordo di te."
"Ho presentato lo st-"
"Aspetta! Sei il ragazzo a cui avevano rubato il pc!"
"Già", risposi, disarmato e costretto ad ammettere la realtà: la mia sfiga viene ricordata dalle persone molto più della mia attività di ricerca.



lunedì 19 novembre 2012

¡ Socorro !

Nella multisala Babel, vicino Avenida de Aragón, trasmettono film in lingua originale. Era una domenica pomeriggio e, all'uscita del cinema, io e G. abbiamo iniziato a parlare di cinema spagnolo, o meglio io lo ascoltavo parlare di cinema spagnolo, visto che, a parte Pedro Almodovar e Alex De La Iglesia, la mia conoscenza del cinema iberico è praticamente nulla.

E così, per non lasciarlo fare un monologo, ho voluto dire la mia con un commento che non poteva essere più scontato: "Come immaginerai poco del cinema spagnolo arriva in Italia, o io ne ho visto poco. Ma Almodóvar mi piace molto".
Ripensandoci, è stato proprio un intervento da sfigato: è come dire ad un italiano "Ah sei italiano? Mi piacciono molto Venezia e la pasta" o a un danese "ho visto la Sirenetta di Copenhagen, è molto più piccola di quello che pensassi" oppure a un russo "Non conosco bene la Russia. Però sono contrario alla politica di Putin".

"No no, a me Almodóvar non piace per nulla", ha risposto G.
"Ah no? E perché?"
"Perché dipinge un'immagine surreale della Spagna"
"Troppo grottesca?"
"Sì, io non mi riconosco per nulla nei film di Almodóvar, e poi mi sembra che stia perdendo molto smalto", e così il regista era smontato di netto nella conversazione.

Dopo alcuni minuti eravamo in un bar a bere una birra e G., tra lo sconvolto e il divertito, ha detto: "Non hai idea di cosa mi è successo venerdì notte". E così ho chiesto, e lui ha iniziato a raccontare.



Erano le tre di notte e G. dormiva, quando fu svegliato improvvisamente da rumori alla porta di casa. Casa sua si trova nella parte sud-ovest del barrio di Ruzafa, e, pur avendola ristrutturata completamente - e quasi da solo, con l'aiuto di suo cognato - non ha ancora avuto il tempo né i soldi di sostituire la porta, che è meno solida di quella del mio bagno. Era evidente che qualcuno stesse cercando di entrare e, preso dal panico, G. tirò un colpo al muro per svegliare la vicina di casa, la signora Maria. Infatti, sul pianerottolo ci sono tre appartamenti, e la camera da letto di G. confina con quella di Maria, la quale a sua volta confina con la camera dell'altro vicino, il signor Manolo.

"Maria! Mi stanno entrando i ladri in casa!" ha gridato G.
La signora Maria, svegliata così di soprassalto e dato quello che aveva sentito, fu presa dal panico e iniziò a urlare a sua volta per svegliare Manolo:
"Manolo! Socorro!" gridò, presumibilmente senza nemmeno alzarsi dal letto.
Manolo si era svegliato ed era andato alla porta con suo figlio; G., nel frattempo, si alzò dal letto ed andò alla sua porta, sentendo che Manolo parlava con il quasi-intruso.

Aprì la porta di casa e si trovò davanti il vicino del piano di sopra che, completamente ubriaco, non sapeva di aver sbagliato piano.
"Paco tu vivi al secondo piano! Che ci fai qui?" gli disse con tono incazzato, mentre il poveretto se ne andava barcollando. Il tempo di andare in bagno, bere un bicchier d'acqua, rimettersi sotto le coperte e G. sentì che bussavano alla porta di casa. Sempre più innervosito, andò alla porta e si trovò davanti Paco, in mutande e biascicando, che si rivolse a lui preoccupato:
"Tio, ho aperto la porta di casa e il mio cane è uscito ed credo sia andato per le scale... Non lo trovo, è passato di qui?"
"Ma che vuoi che ne sappia io?", rispose G., sempre più scoglionato. "Và, torna a casa tua, che non stai in piedi, magari è lì, e lasciami dormire!"

Io ridevo a crepapelle mentre G., tutto appassionato, mi raccontava la storia. "Ti rendi conto di come sta la gente?" mi ha detto, alla fine.

"Già...", mi sono limitato a rispondere. "E tu dicevi che Almodóvar dipinge un'immagine surreale della Spagna?"

mercoledì 14 novembre 2012

Relaciones peligrosas

Quando mi sono trasferito a Valencia non pensavo che, nel giro di circa un anno, mi sarei avvicinato in modo così rapido alle figure losche che contraddistinguono le sue alte sfere.

Proprio la settimana dopo che ho traslocato nel mio attuale appartamento, praticamente sotto casa mia ha aperto un "circolo privato" (così recita, sotto al nome del locale, l'insegna) gestito da un gruppetto di bancabbestia

(sì, bancabbestia, avete letto bene. Un bancabbestia è un punkabbestia che in realtà ha un conto corrente con più zeri del mio)

che praticamente non fanno altro che fumare canne. Io vivo al primo piano e l'ingresso del loro circolo è sotto al balconcino che ho in soggiorno, sì e no a quindici metri sulla sinistra. Il consumo di marijuana in quel "circolo" è così elevato che la settimana scorsa, mentre cenavo guardando un episodio di Dexter con la finestra del soggiorno aperta, l'odore entrava dentro casa mia. Non scherzo. Se non fosse per i due-tre cani che ogni tanto si portano lì nel pomeriggio nei week-end quando fanno le pulizie, uno dei quali si chiama Bambola (mi dite come cazzo si può chiamare un cane "Bambola"?) che abbaiano continuamente e che loro lasciano cagare proprio accanto al portone del mio palazzo, non mi darebbero alcun fastidio.

Ma infondo loro sono innocui, e non sono le figure losche delle alte sfere a cui facevo riferimento all'inizio, anzi non so perché ne stessi parlando.

Alcuni mesi fa ho scoperto che nella mia palestra è iscritto - rullo di tamburi - Ricardo Costa.


Ricardo Costa Climent è un politico quarantenne valenciano, manco a dirlo del PP, deputato alle Corts Valenciane (il consiglio regionale) da alcune legislature, ex portavoce del gruppo del PP alle Corts stesse.

Fu sospeso dalla sua posizione nel PP quando saltò fuori il suo ruolo nel caso Gürtel, probabilmente uno dei casi di corruzione più grandi d'Europa, nel quale si scoprì tramite intercettazioni ambientali e telefoniche come un gruppo di imprese - che avevano organizzato eventi per il Partido Popular - otteneva vantaggi nell'aggiudicazione di appalti grazie a regali e pagamenti vari fatti a politici del PP.

Tra le altre cose, regalavano completi da uomo, pantaloni etc. e tra le persone coinvolte, nella Comunidad Valenciana, c'erano appunto Ricardo Costa e l'allora Presidente della Comunidad, Francisco Camps.

In sostanza, se il PP spagnolo corrisponde al PDL italiano, Ricardo Costa è il Franco Fiorito della Comunidad Valenciana, anche se di aspetto decisamente migliore, e Camps è Formigoni. Quindi Franco Fiorito viene in palestra con me.

Nelle intercettazioni di un caso affine, Ricardo Costa viene chiamato Mimosin, cioè Coccolino. io non so perché, sarà perché ha la faccia da pacioccone? Non direi proprio: vedendolo in palestra, mi sembra un evidente caso di narcisismo ed egocentrismo.

La prima volta che lo vidi, mi stavo dirigendo alla macchina per gli addominali e lui, scartandomi, l'ha occupata. Io non voglio dire che me l'ha rubata, ecco, però il risultato è lo stesso. La seconda volta è stato quasi tutto il tempo a parlare al cellulare: io gli passavo accanto di tanto in tanto facendo il vago con aria tipo "hm, non capisco se usare questi attrezzi o quelli lì a fianco, ci rifletterò un po' ", nella speranza di captare una frase compromettente (se non regali della trama Gürtel, almeno che parlasse con un'amante), ma niente.

Ma l'incontro-scontro più importante è stato alcune settimane fa, quando, andando di fretta in bicicletta, ho rischiato di metterlo sotto mentre faceva jogging sulla pista ciclabile. Lui mi ha urlato qualcosa dietro, forse "Lei non sa chi sono io!", ma non l'ho sentito.

Onestamente avrei voluto gridargli qualcosa contro, o metterlo sotto con la bici, così sarei passato agli onori della cronaca come quelli che hanno lasciato un cumulo di feci accanto all'armadietto di Camps, ma non ne ho avuto il coraggio.

Sarà per la prossima volta?

venerdì 9 novembre 2012

Movistar

Di recente ho fatto (credo) un buon affare: sono passato a Movistar con il fisso ed internet, oltre al cellulare, e così pago 60 euro al mese IVA inclusa per tutte e tre le cose insieme e posso vivere felice e contento (o quasi).

Gli ho telefonato due settimane fa per fare la portabilità: prima avevo il fisso ed internet con Jazztel. Sono stati gentili con me, abbiamo anche scherzato sul mio nome. E io sono stato bravo nel fare lo spelling, credo, anche se ogni volta che arrivo alla "N" di Gaetano tardo un paio di secondi prima di ricordare che la migliore associazione è "la N di Navarra".

Ma a volte è sufficiente un'immagine a spazzare via ogni illusione. L'immagine di cui parlo è la seguente.



Niente da fare. Mai riusciranno a chiamarmi come si deve, mai.


mercoledì 7 novembre 2012

¡ Viva la Pepa !

Esistono due tipi di perone al mondo: quelle con personalità e quelle senza personalità. Pepa appartiene senza dubbio al primo gruppo. Ma Pepa chi?

Andiamo con ordine.

Lo scorso fine settimana ero in giro per Ruzafa con alcuni amici, e dopo un breve concerto pre-cena, una birra e l'immancabile cena a La Tasca de Ruzafa, un bar di tapas a conduzione familiare, dove ho sempre mangiato benissimo e mai ho speso più di 10 euro per una cena, eravamo in giro discutendo sul da farsi.

In realtà non c'è stata una vera discussione: da amanti del trash - con moderazione, molta - abbiamo deciso allegramente di fare tappa breve in uno dei bar più non-mi-viene-l'aggettivo-appropriato di Ruzafa. A partire dal nome: ¡ Viva la Pepa !. Toma ya.

"¡ Viva la Pepa ! " si trova in Calle del Cura Femenía ed è un bar piuttosto riciclato, raffazzonato. No, brutto. Tutto è fuori luogo in quel bar, a partire dall'odore di stantío che si sente quando si entra.
La star del locale è, appunto, Pepa. Pepa è una ragazza (già un po' cresciuta, eh) che si è resa famosa per circa 15 minuti in Spagna un paio di anni fa partecipando a "Tú sí que vales", un talent show di merda di Telecinco. Pepa si classificò seconda e, se anche a una persona che entra nel suo bar non gliene può fottere di meno, è impossibile trascurare il fatto, dato che sul muro alla destra è appeso l'attestato di partecipazione con tanto di mega-assegno dei 1000 euro vinti.

Il problema principale del locale è il suo aspetto, da bar sopravvissuto male alla crisi economica e al fatto che posti di quel tipo hanno cessato di esistere nel mondo reale a metà degli anni '90. Ci sono due piccole sale; in una c'è il bar, l'altra è la pista da ballo, piuttosto piccola. Nella pista da ballo mi sono solo affacciato, non sono entrato, perché era vuota quando eravamo lì, nonché mezza buia. Ma soprattutto è inquietante: le pareti sono costellate di disegni e colori con uno stile che è una via di mezzo tra la street art e un videogioco SEGA, e passando sotto l'arco attraverso il quale si accede io avrei la certezza assoluta che lì dietro c'è un serial killer pronto ad uccidermi.

Ma il punto di forza è il bar. E non è un bar qualsiasi: Pepa, al bancone, indossa un microfono del tipo di quelli di Ambra a Non è la Rai e, mentre serve i clienti, canta.
Ora, immaginate una con l'aspetto non troppo diverso da quello di Adele ed una voce oggettivamente potente in un posto grande 3 metri quadrati e, mentre voi cercate di ordinare una birra, lei sta intonando Rescue Me o qualcosa del genere: concorderete che uno un po' timido ci rimane secco.
Insomma, è una specie di Coyote Ugly senza balletti sexy finto-lesbo sul bancone o cravatte tagliate agli uomini d'affari di passaggio.

E quindi perché andare da Viva la Pepa? Perché se si ama il trash, stare lì è divertente, e lei, tutta sorridente, al tuo ingresso, con solo 3 clienti nel locale ti invita a bere un cicchetto offerto dalla casa (la vera ragione per cui eravamo andati lì): un miscuglio color rosso e sapore di colluttorio (dunque Iodosan, più che Listerine) da mandare giù senza pensarci e come se non ci fosse un domani.

Venerdì sera da Viva la Pepa ci siamo fermati non più di 15 minuti. Dietro di me avevo una 50enne che aveva il viso così rifatto che quasi sembrava Nicole Kidman, però questa Nicole Kidman


che si faceva foto con pose presuntamente sexy e questo, vi assicuro, era decisamente troppo.