lunedì 30 giugno 2014

El cliente número 500



Circa un mese fa, tramite Grupon, ho comprato insieme a due amici un buono di dieci lezioni di bikram yoga da realizzare presso un centro a pochi metri dalla Finca Roja. Per chi non lo sapesse, il bikram yoga è una serie di posture di yoga (nel mio caso, per una durata totale di 90 minuti) che si svolge a una temperatura di 40 gradi.

Per come lo vedo io, per fare bene yoga sono necessari, tra le altre cose, concentrazione, senso dell'equilibrio e grande coordinazione. Io non possiedo nessuna di queste qualità.

Le lezioni di bikram sono abbastanza care, tant'è vero che un mese di abbonamento nel centro dove io vado costa 100 €, ma l'offerta di Grupon era piuttosto economica: costava 40 €. Inoltre, mentre completavo l'acquisto, Grupon mi ha comunicato con giubilo che mi regalava 10 € aggiuntivi di sconto, per cui alla fine l'acquisto è stato molto economico.

Ieri sono andato alla mia quinta lezione dove, come sempre, ho perso circa tre litri di liquidi in sudore e, nonostante alcune posture proprio non riuscirò mai a farle, ero piuttosto contento. Sicuramente più della volta precedente, quando sono dovuto stare per quasi un terzo del tempo fermo perché altrimenti sarei svenuto.
All'uscita, il maestro, che è francese, mi ha fermato tutto allegro:
"Gaetano, ti do questo, così le prossime volte che vieni basta che lo passi sotto il lettore ottico e puoi entrare", mi ha detto, passandomi un aggeggio rotondo di plastica con un codice a barre. "Come puoi vedere si può anche legare alle chiavi, così indirettamente ci fai anche pubblicità!"
"..."
"...E poi se dovessi perdere le chiavi le possono portare qui, è successo"
"Ecco, quello è utile..." ho detto con un po' di imbarazzo, pensando che solo un paio di mesi fa ho perso le chiavi di casa.
"...E così posso andare a casa tua a rubare!"
"..."
"...Scherzo! Più che altro ho una buona notizia da darti: sei il nostro cliente numero 500", mi ha detto avvicinandosi per darmi una pacca sulla spalla.
"Davvero?" ho risposto incredulo: io, nella mia vita, non ho mai vinto nulla.
"Sì! E per questo, ti regaliamo un mese gratis illimitato, che ti caricherò sul chip nonappena finirai la promozione in corso".
E sono andato via così, contento del fatto che per la prima volta nella mia vita non sono stato uno sfortunato.


martedì 22 aprile 2014

Itañol



Quando sono venuto a vivere in Spagna non sapevo un'acca di spagnolo a parte "buenos días", "buenas noches", "Zapatero" e "macarena". Di conseguenza, quando mi azzardavo a parlare agli autoctoni nella loro lingua, cosa che era quasi sempre inevitabile, finivo per parlare un miscuglio di italiano e spagnolo meglio noto come itañol, la lingua degli italiani trapiantati in Spagna, o degli spagnoli trapiantati in Italia.

L'itañol (altrimenti detto espaliano) è ben diverso dalla caricatura dello spagnolo perpetrata da certi italiani, che, una volta arrivati in Spagna, pensano che basti aggiungere qualche u e qualche s alle parole italiane per trasformarsi magicamente in castigliani: "Duoves possiamos mangiares tortillas?"(*), tanto per farci un'idea. L'itañol è uno spagnolo parlato con un accento marcatamente italiano e con una grammatica per lo più corretta, ma un vocabolario nel quale, di tanto in tanto, si infilano italianismi azzardati.

Col passare del tempo, via via che il mio spagnolo migliorava, il mio itañol si è affievolito, nonostante, in alcuni momenti di stanchezza o relax eccessivo, tuttora mi escano fuori parole italiane spagnolizzate.

Mai avrei pensato, però, tre anni fa, che l'itañol funzionasse anche al contrario, e cioè che lo spagnolo penetrasse nella mia conoscenza della lingua italiana, iniziando ad annacquarla e riempirla di parole ed espressioni non sue. Difatti l'idea per questo post mi è venuta da un commento di qualche giorno fa di un'amica, anch'ella espatriata e che quindi mi può capire.

Per dirla in altre parole: il livello del mio italiano è peggiorato, no, anzi, è sprofondato da tre anni a questa parte. Sarà che mi capita di parlarlo poco (scrivere non è lo stesso: a voce lo parlo solo quando sento i miei genitori, o con F. che qui è il mio unico amico italiano), ma certe volte mi fermo a pensare a quello che dico e mi sento in imbarazzo. La cosa peggiore è che io ho sempre riso della gente che faceva così, o di quelli che si trasferivano dalle mie parti al nord in Italia e improvvisamente iniziavano a usare parole come "sportina", "dare il tiro" e chi più ne ha più ne metta. Ora chiedo venia e torno indietro con la coda tra le gambe.

Ed ecco a voi una serie di strafalcioni che commetto più spesso di quanto pensi quando parlo in italiano, che altro non sono se non una traduzione letterale di espressioni in spagnolo:

1. "Ieri sera ho cenato carciofi"
In spagnolo direi "Anoche cené alcachofas" ma in italiano no.

2. "Sono uscito a correre"
Dallo spagnolo "he salido a correr", di cui è la traduzione letterale; meno male che non dico "sono salito a correre" ("e dove? in terrazzo?" mi potrebbero chiedere).

3. "Che sì! che no!"
In spagnolo si dice "que sí" / "que no" per enfatizzare una risposta affermativa o negativa. Per esempio:
"Seguro que has tendido la ropa?" "que sí!" ("Sicuro che hai steso i panni?"). Ecco, io ci metto un "che" di troppo in italiano.

4. Usare parole italiane desuete o poco comuni perché sono uguali al corrispettivo spagnolo
Ad esempio: non uso quasi più la parola "veloce", bensì solo "rapido/a". E poi, chi usa più il verbo "solere" in italiano? ("Quel ristorante suole essere economico") Risposta: io.

5. "Tengo un poco di freddo"
Due cagate in una: usare il verbo tenere invece di avere o sentire, solo perché "Tengo un poco de frío" è ciò che direi in spagnolo: peccato che sembri dialetto abruzzese italianizzato, e poi usare "un poco" invece di "un po' ", che fa suonare vecchio.

6. Fare confusione con gli ausiliari. Per la precisione, tendere a usare sempre il verbo avere.
...E questo perché in spagnolo l'ausiliare è il verbo haber, avere.

7. "Preferiro andare lì"
Per fortuna mi è capitato solo una volta. Ma, abituato a dire "prefiero", quando sto per dire "preferisco" sempre, e sottolineo sempre, mi sorge il dubbio che in italiano non sia corretto e non sia in realtà una forma dialettale.

8. "Sono andato a fare la compra"
La spesa, si dice la spesa Gaetano, cazzo, la spesa.

Questa è una richiesta d'aiuto. Aiutatemi a non finire per parlare con un vocabolario di 100 parole.


*Non avete idea di quanto sia comune sentire frasi del genere per strada in Spagna, per lo meno a Valencia. No, no, è molto più comune di quanto pensiate. Più di sentire un raffazzonato "voulez-vous coucher avec moi ce soir" in Francia.


martedì 15 aprile 2014

Otra vez


"Forse dovresti cominciare a pensare a cosa farai a partire da settembre, se non ti rinnovano il contratto", mi ha detto J., mentre sparecchiavamo la tavola, dopo aver finito di cenare.

"Sì, ma è difficile prendere decisioni drastiche quando si è avvolti nell'incertezza...", gli ho risposto, abbozzando, e cercando di dissimulare il fatto che io stia procrastinando ogni scelta cruciale a data da destinarsi.

"Già... Io ho sempre più chiaro che me ne tornerò in America Latina, a settembre. Le offerte di lavoro che sto trovando sono molto migliori di quello che c'è qui in Europa."
"E hai voglia di tornare?", gli ho chiesto, sapendo già la risposta. 
"Sì Gae, e poi così posso stare vicino ai miei. E a te non manca l'Italia?"
"No... Sì... No.", ho risposto, evidentemente molto convinto. J. ha riso, una risata di quelle che implicitamente ti dicono che non stanno capendo nulla.

"Certo che mi manca. Mi mancano i miei amici, mi manca la mia famiglia - anche se comunque sarei stato lontano da loro -, mi manca il mio Paese. Ma ogni volta che torno mi sento più estraneo. Io sono cambiato, ma soprattutto ho sempre più l'impressione che l'Italia sia cambiata, come se la crisi profonda degli ultimi anni l'abbia fatta regredire. Vedo un imbarbarimento nei costumi, nelle persone; come se la scusa della depressione economica abbia permesso una regressione anche nell'apertura mentale".
"In che senso?" mi ha chiesto J., spaesato.

"Nel senso che io leggo le notizie dall'Italia, la osservo quando torno, leggo ciò che scrive la gente e mi sento un alieno. Niente di tutto ciò in cui credo sembra avere più spazio. L'Italia sta diventando un paese bigotto, dove è normale rallegrarsi per il naufragio di un barcone di immigrati o il pestaggio di un omosessuale; dove non suscita sconcerto diffuso dare della scimmia a un ministro di colore; dove il sessismo è uno strumento politico qualunque, dove quelle che in altri Paesi sono conquiste di civiltà ormai assodate si fanno sempre più lontane"

"Vedi però... Questa è l'immagine che ho io dell'Italia, e che sempre mi hanno confermato, con i loro racconti, gli italiani emigrati che ho conosciuto".
"No, non è questa l'Italia", ho risposto io, convinto e un po' incazzato, "o almeno non era questa. Prima c'era un barlume di politicamente corretto, c'erano dei valori che pian piano prendevano spazio, c'erano differenze tra diverse parti del Paese nel modo di pensare. Ora è come se l'opinione più becera sia stata legittimata, crea più scandalo un bacio tra due uomini che non un incitamento a imbracciare i fucili o un vecchio che va con una minorenne". Nel frattempo, mi sono accorto che stavo liberando la tavola nervosamente.

La cosa più brutta dell'avere espatriato è guardarsi alle spalle e non riconoscersi nelle proprie origini: non perché si vogliano rinnegare, ma perché sono proprio loro ad aver rinnegato te.
Quando, di questi tempi, si parla della nuova emigrazione, si fa riferimento a giovani e meno giovani in cerca di un lavoro in Paesi con più prospettive. Mai si parla di chi se ne va per scelta, per cercare una vita migliore, per sentirsi identificato e orgoglioso di ciò che lo circonda. Sempre si pensa a quanto sia difficile adattarsi ad un contesto sociale diverso da quello di provenienza, mai a quanto sia difficile restare lì dove ci si sente sempre più minoranza. 

Sono andato via dall'Italia esattamente tre anni fa e ho imparato, in questi anni, a cercare di sentirmi a casa lì dove non è casa mia; ho scoperto che è più facile che restare. Ho scoperto che, quando i miei interlocutori criticano l'Italia e gli italiani, con gli argomenti di sempre, nasce in me un certo orgoglio, una certa voglia di difendere il mio Paese che prima non avevo, e che però piano piano si fa sempre più effimera. E anche se le cose in questi tre anni non sono sempre andate come avrei sperato, o forse quasi mai, in nessun momento mi sono pentito della mia scelta.

"A me manca l'Italia, ma non questa. Mi manca l'Italia che conoscevo io, o forse quella in cui io speravo di vivere.".

"Ora ti capisco. Però non dirmi che andresti in qualsiasi posto".
"No dai. A Pyongyang, per esempio, non ci andrei a vivere nemmeno dipinto".


mercoledì 2 aprile 2014

Nadando


Per una persona a cui piace nuotare, avere una piscina dall'altro lato della strada rispetto a dove si lavora è un gran colpo di fortuna, oserei dire un lusso.

Da più di un anno, due volte a settimana, approfitto di questa fortuna e, in pausa pranzo, attraverso l'Avinguda dels Tarongers e vado a nuotare alla piscina dell'Università Politecnica. Nuotare è bellissimo: quando finisco mi sento sempre carico di energie, affamato, e di buon umore.

Tuttavia, sicuramente massimizzerei questi effetti benefici se non dovessi spartire la piscina con la maggioranza di quelli che la frequentano nelle ore di nuoto libero. E sono proprio stati lo stress e la frustrazione sviluppati nella giornata di ieri, dove sembrava che il Congresso dei Soliti Stronzi si fosse dato appuntamento alla piscina dell'UPV, che mi hanno spinto a rispolverare questo blog ibernato da 6 mesi con una finalità di progresso sociale: scrivere

IL CODICE DELLA PISCINA

che, quando sarò importante, avrà la stessa importanza del codice della strada.

Premessa: chi scrive ha fatto qualche anno di nuoto. Ciononostante, anche quando partecipavo alle gare di nuoto ero abbastanza una merda, per dirlo con eleganza. Se ho vinto due bronzi di categoria, infatti, è solo grazie a una fortuna sfacciata: gli altri concorrenti erano assenti o sono stati squalificati, per cui abbiamo tagliato il traguardo solo in tre. Tuttavia, ho imparato sulla mia pelle che rispettare le seguenti regole migliora la salute, propria e del prossimo.

Art. 1. Se il tuo obiettivo è imparare a nuotare, iscriviti a un corso di nuoto e non al nuoto libero.
Comma. Saper stare a galla e spersi muovere non vuol dire saper nuotare. 

Art. 2. È vietato andare a nuotare in piscina con la maschera e il boccaglio.

Art. 3. Se vuoi fare acqua gym, iscriviti a un corso di acqua gym.

Art. 4. La linea blu sul fondo della corsia serve, tra l'altro, a dividere la corsia in due direzioni. Quando si nuota bisogna tenere la destra, e questo anche se ci si trova nel Regno Unito, Irlanda, Cipro etc.

Art. 5. Non si va in piscina per mettersi a bordo vasca a ciarlare e fare versi strani. Se volete andare in un posto solo a socializzare, senza fare attività fisica, la palestra fa per voi. Il nuoto è uno sport splendidamente asociale.

Art. 6. In una delle corsie un cartello indica: "Corsia rapida". Dovrebbe essere superfluo e ridondante dirvi che, se siete lenti o rientrate nella categoria di cui all'art.1, non dovreste andare in quella corsia. Mai.

Art. 7. Quando si condivide la corsia con altra gente, si capisce subito chi è più rapido e chi meno. Se vedete che una persona più rapida di voi sta per arrivare, anzi è lì pronta a fare la virata, non affrettatevi a partire: aspettate che passi.
Comma. La persona, più veloce di voi, che stava arrivando e non avete fatto passare è autorizzata a toccarvi il piede per indicarvi di lasciarla passare.

Art. 8. È inutile, mentre si nuota a dorso, spingersi col galleggiante per far credere al prossimo che si è veloci.
Comma. Questo vale anche quando si fanno esercizi di gambe con la tavola.

Art. 9. Sedersi sui galleggianti è vietato ed è cosa da bambini. Ma, se fatto da una persona di mezza età, meriterebbe l'espulsione dalla piscina.

Art. 10. Attraversare la vasca di traverso passando sott'acqua è vietato.
Comma. Qualora vi mancasse l'aria e siete ancora a metà strada, cazzi vostri.

Art. 11. In una piscina abbastanza affollata nelle ore di nuoto libero, nuotare a delfino è un crimine.

Art. 12. Nel nuotare a rana, fare attenzione a non dare calci alle gambe o alle palle della persona che passa nel verso contrario o nella corsia accanto.

Art. 13. Ci sarà un motivo per sui è obbligatorio indossare la cuffia. Per questo motivo, è vietato, alla fine della nuotata, togliersi la cuffia e immergere i capelli nell'acqua (per quale cazzo di ragione poi uno lo dovrebbe fare?)
Comma. Se avete più peli che capelli, e in grande quantità, forse dovreste considerare il burkini.

Disposizioni transitorie e generali. Prima di entrare in acqua, il costume va allacciato bene, per evitare l'effetto salvadanaio.

giovedì 10 ottobre 2013

Yonki

La parola yonki è una spagnolizzazione dell'inglese junkie (un po' come beisbol è lo spagnolo per baseball) e indica una persona che ha una dipendenza.
Ebbene, io vi comunico fieramente che ho una dipendenza dalle serie televisive, cosa che, per fortuna, negli ultimi tempi sembra non essere più da sfigati, e questo perché da un po' di anni a questa parte la qualità media dei telefilm, in particolare americani, ma non solo, è aumentata di molto ed alcuni sono delle perle. Anzi, quasi dei lunghi film di ottimo livello.

In questo mi aiutano la mia connessione internet, che mi permette di scaricare a valanga, e siti web (spagnoli) come series.lySeriesYonkis dove ci sono link a tutte le serie che si possano desiderare, per vederle in streaming doppiate o (per fortuna) in lingua originale.

Tutto ciò mentre in Italia la televisione non è in grado di produrre di meglio che la millequattrocentesima stagione di Don Matteo, surreale telefilm in cui un prete di provincia indaga sugli omicidi che avvengono nel suo paesino, che deve avere un tasso di criminalità più alto di quello di Cabot Cove (ti credo: con Nino Frassica come commissario non si può avere fiducia nei Carabinieri), o Fratelli Detective, in cui due fratelli indagano su omicidi, il che ti fa chiedere "ma che cazzo fa la polizia?", o Commesse, in cui delle commesse indagano su omicidi... ah no, questo no. Comunque per dire che c'è un mondo di alto livello tra le serie tv per cui non è più tanto da nerd sfigati esserne un fan, ed è ora di celebrarlo.

Ora, io ho una passione particolare per il crime, il che rende i miei giudizi un po' alterati, ma a suo tempo sono anche stato un grande fan di Lost, Weeds, Grey's Anatomy e chi più ne ha più ne metta. Ad ogni modo, ecco la mia personale Top 11 (non riuscivo a toglierne una per scendere a 10, sorry) delle Serie che ho visto quest'anno, senza spoilers, e con giudizi personalissimi ma affidabilissimi.

11


Downton Abbey. Racconta le vicende di una ipotetica casa nobiliare inglese all'inizio del ventesimo secolo, tra humor inglese, amori (im)possibili e servitù che ne sa una più del diavolo. Mi sono tuffato in questo telefilm quando l'asportazione del dente del giudizio e l'inattesa infezione mi hanno costretto a casa, con laceranti dolori; tuttavia, a lungo andare, trovo che stanchi un po'. Ok gli attori bravi, il senso dell'umorismo trasmesso da Maggie Smith (che sembra essere lì solo per tirar fuori una battutina tagliente ogni 15 minuti), ma francamente un Beautiful novecentesco anche no. Avrebbero potuto fare una sola stagione e avrebbero avuto anche il mio applauso.

10

Bates Motel. Una serie che vuole raccontare le vicende di un Norman Bates adolescente e che te lo mostra con iPhone, che più adolescentedelduemila non si può, lascia all'inizio un po' perplessi. E caratterizzare il paesino come una sorta di Twin Peaks dove gli unici che mancano sono la signora del ceppo e il nano non aiuta molto. Eppure, ho trovato questa serie ben fatta, con Vera Farmiga straordinaria e sicuramente si merita che io sia in attesa della seconda stagione, soprattutto dopo un cliffhanger finale che non ha deluso le aspettative.

9

Dexter 8. Parliamoci chiaro: io sono stato un gran fan di Dexter. Iniziai a vederlo proprio quando iniziò negli States, scaricandolo (illegalmente) usando la rete wifi a cui mi connettevo (illegalmente) dalla mia mansarda di via Santo Stefano a Bologna, dove ero in affitto (illegalmente). E non mi ha mai deluso. Detto questo, l'ottava stagione, le cui aspettative erano state pompate all'inverosimile con la pantomima di "The end is near", mi ha lasciato con l'amaro in bocca. Lotta con Lost per il premio al peggior finale di sempre.

8

The Bridge. Un cadavere viene ritrovato a metà sul confine tra Messico e Texas, su un ponte, e costringe due detective, uno messicano e una americana, a collaborare insieme nonostante siano l'uno l'opposto dell'altro. Uno dei motivi principali per vedere questa serie è il personaggio della detective americana, Sonya, trionfo della totale assenza di empatia e senso dell'opportuno. Un personaggio che, se la serie andrà avanti, potrebbe fare storia. Comunque, la prima stagione è appena finita, io ho visto i primi 3 episodi ma il giudizio è un: mmmmmm, interesting.

7

A young doctor's notebook. Tratto dai racconti di un tizio bulgaro di cui non mi ricordo il nome, racconta le vicende di un neolaureato in medicina nella Russia appena divenuta comunista che viene spedito da Mosca in un remoto villaggio della Siberia. Divertente e sarcastico, senza alcun tentativo di essere politicamente corretto, e poi con Jon Hamm nel cast, direi che sono motivi sufficienti per vederlo. E sono solo 4 episodi.

6

Utopia. Della gente strana si mette alla ricerca di un fumetto, Utopia appunto, che a quanto pare svelerebbe il segreto di nonsisabenecosa. Tuttavia, allo stesso tempo, anche un gruppetto di nerd che tra loro non si conoscono cerca di entrarne in possesso, ma semplicemente perché sono dei nerd. Bellissimi colori e fotografia, sangue e scene un po' estreme che a me ricordano molto Tarantino, una piccola e surreale gemma di sei episodi prodotta da Channel 4 (ecco, iniziamo con le serie inglesi).

5

The Following. Un serial killer mette su una setta di serial killers e si prende gioco dell'FBI, che sicuramente non fa una bella figura. Lo ammetto: ci sono molti passaggi in questo telefilm che sono molto poco credibili, ma nessuna serie mi aveva mai generato tanta ansia quanto questa. Il telefilm è pervaso di un senso di "non ci si può fidare di nessuno" che dà angoscia, e il cast è da applauso. Attendo con ansia la seconda stagione.

4

What Remains. Altro prodotto inglese (questa volta BBC). Il cadavere di una ragazza viene trovato in un sottotetto dopo qualche anno dalla sua morte, senza che nessuno avesse mai denunciato la sua scomparsa. A parte che un giallo, What Remains è una storia tristissima che parla di solitudine e cinismo. Un'altra volta un applauso agli inglesi, che hanno il pregio di mantenere le storie sufficientemente brevi, così da non rovinarle (cosa che spesso gli americani non sanno fare).

3

Game of Thrones 3. Vabbè dai, GOT è famoso, e sicuramente io sono il meno esperto del mondo. Devo dire però che questa serie dà tante soddisfazioni, perché non solo mantiene il suo livello alto con il tempo, bensì lo migliora. La scena del Red Wedding dell'episodio 9 ormai è passata alla storia. Non è più in alto solo perché il finale, rispetto al resto della stagione, era un po' sottotono.

2

Broadchurch. Il cadavere di un ragazzino di 11 anni viene ritrovato sulla spiaggia della cittadina di Broadchurch e ne sconvolge l'esistenza. Questa miniserie di 8 episodi mi ha spezzato il cuore. E non per la storia in sé della morte di un ragazzino: anzi, trovo che spesso film, telefilm, e, nella vita reale, TG e talk show usano storie di questo tipo in modo squallido, tirandoti fuori la lacrima facile. Ho sempre odiato il modo di fare di certo giornalismo, come talvolta in Italia, che chiama Tommaso Onofri "Il Piccolo Tommy" e si riferisce ai pedofili parlando di "Orchi", come se fossero delle creature di un altro mondo mentre putroppo sono dei criminali ben presenti e diffusi nella notra società. Queste, ho sempre pensato io, sono vere mancanze di rispetto verso tragedie che coinvolgono minori. Insomma, Broadchurch mi ha colpito moltissimo per il modo di trattare la vicenda, il modo in cui sono sviluppati i personaggi e si raccontano l'ipocrisia e la violenza verbale e psicologica che spesso si manifestano in comunità che, al principio, sembravano perfette. 

1

In the Flesh. Non è la solita storia di zombie. Questa perla di 3 episodi di BBC Three affronta il tema (trito e ritrito) degli zombie in modo del tutto originale e molto toccante. La serie comincia al termine di una apocalisse zombie, che è stata fermata, e si è trovata una cura per gli zombie, o meglio per una malattia che le autorità chiamano "Partially Deceased Syndrome". Il vero problema è reinserire gli (ex) zombie nella società, e in particolare a Roarton, piccolo paesino dove le milizie anti-zombie dettano legge. Sì, è una miniserie che parla di zombie, ma in realtà può parlare di qualsiasi contesto in cui la società si rifiuta di accettare chi è diverso, in cui anche la famiglia si vergogna dei suoi membri, in cui tra il pubblico e il privato c'è un solco enorme e soprattutto in cui accettare le cose e chiamarle col loro nome, per alcuni, è impossibile. Sono davvero contento che stiano realizzando la seconda stagione, che andrà in onda nel 2014. 

mercoledì 11 settembre 2013

Primer día de clase





Una settimana fa ho iniziato il mio terzo anno a Valencia (terzo anno. TERZO. La vecchiaia avanza) e lunedì, l'altroieri, è ufficialmente iniziato l'anno accademico.

Tuttavia, la prima lezione io l'ho data ieri e, come ogni semestre, ero anche un filino emozionato all'idea di iniziare il corso. Nonostante l'orario sfigato (la lezione inizia alle 19.30, ed è l'ultima della giornata, per cui l'aula sembra il set di The Walking Dead) , io sono partito abbastanza energico e contento.

Nonostante le mie buone intenzioni, però quando ho cercato di accendere il proiettore, non andava.
"Credo sia rotto, ieri durante la lezione ha improvvisamente smesso di funzionare" è intervenuto un alunno dalla prima fila.
"Ah. Mi è successa la stessa cosa nella prima lezione dello scorso anno. Dev'essere destino" ho risposto io, cercando di fare il simpatico.
"..." hanno risposto gli studenti.

E così, con l'interfono, ho chiamato la portineria chiedendo se poteva salire qualcuno a sistemare il proiettore. Dopo due minuti, la signora venuta dalla portineria ha constatato che non c'era nulla da fare e ci ha chiesto di spostarci in un'altra aula, allo stesso piano, dove un suo collega sarebbe passato a breve ad aprire la porta, qualora fosse chiusa a chiave.

Ho guidato la transumanza degli studenti - ma secondo me nel frattempo ne ho perso qualcuno - e, arrivato alla porta, ho visto che era chiusa a chiave. "Si, ho provato anch'io, è chiusa" mi ha detto uno studente olandese che avevo anche lo scorso anno, in un altro corso.

Dopo quasi dieci minuti di attesa e nessuno all'orizzonte, ho spedito l'olandese al piano terra a chiedere la chiave dell'aula, ma, al suo ritorno, mi ha detto "mi hanno detto che la chiave dell'armadietto (del computer) che hai va bene". "No, non va assolutamente bene", ho risposto piccato. "So com'è fatta quella chiave, e questa è diversa", e ho inutilmente infilato la chiave nella toppa per dimostrarlo.

A quel punto ho deciso di scendere giù, sempre più innervosito, e, arrivato in portineria, ho detto:

"Mi serve la chiave dell'aula. Questa (agitando la chiave dell'armadietto) non è la chiave dell'aula".
"Ma se vengo proprio da lì, ho appena aperto!" ha sbottato uno degli uomini della portineria.
"Senta, non è possibile, vengo da lì e non è passato nessuno."
"Le giuro che sono salito nonappena la mia collega ha chiamato all'interfono per dire che vi serviva una nuova aula"
"E io le giuro che la porta è chiusa"
"Saliamo insieme. Io non mento! È una questione d'onore"
"Io nemmeno mento! - ho ribattuto - Magari la porta era aperta e tu l'hai chiusa"
"..."

Saliti su, siamo andati alla porta, circondati dalla cinquantina di studenti del corso, lui, ha cercato di aprire e la porta non andava. "Ha visto?", sono intervenuto subito. Lui ha dato uno strattone più forte e la porta si è aperta. "Ha visto? Basta un pochino di forza" mi ha detto orgoglioso e soddisfatto, mentre io sprofondavo nello squallore e uno studente cercava di tirarmi su di morale dicendo che anche a lui sembrava chiusa a chiave.

Siamo entrati dentro, ma sarà difficile riconquistare il rispetto perso nel giro di mezz'ora.

Un ottimo inizio d'anno accademico.


mercoledì 31 luglio 2013

Non aprite quella porta


Le ferie sono alle porte ed io, ovviamente, sono indietro con il lavoro. Tutto ciò che pensavo di terminare prima di andare in ferie è più o meno a metà, per cui probabilmente mi toccherà lavorare un po' anche nei primi giorni di vacanza.

Anche per questo motivo, lunedì, ho lavorato fino alle otto di sera, nonostante mi fossi ripromesso, per l'ultima settimana, di uscire prima, anche per fare un salto in spiaggia. Tornato a casa stanco, mi sono fiondato in doccia. Mentre mi sciacquavo, togliendomi di dosso i grani del mio docciaschiuma massage non so che che sembra come insaponarsi con la sabbia, ho sentito dei rumori venire dalla porta di casa.

Devo premettere che il condominio in cui vivo, pur essendo nuovo, è fatto coi piedi, per cui si sentono tutti i rumori del mondo dal pianerottolo, in particolare quando i vicini aprono e chiudono la loro porta di casa.
E così, non ci ho fatto molto caso, pensando che fossero loro che rientravano, ma all'improvviso mi sono accorto che era la mia porta di casa quella che si stava aprendo.

Ho chiuso il rubinetto della doccia ed ho aperto gli sportelli, con uno sguardo attonito e incerto, quando ho iniziato a sentire le voci. No, non parlo di voci nella mia testa, bensì voci di persone che si apprestavano a entrare in casa mia.

Terrorizzato, ho urlato:
"Chi è?"
"Sono Enrique, dell'agenzia immobiliaria"

Macheccazzo, ho pensato. Gli ho urlato di aspettare alla porta perché stavo uscendo dalla doccia e di non entrare, mentre mi asciugavo affannosamente e approssimativamente col mio accappatoio.

Sono uscito dal bagno, ancora mezzo bagnato, scalzo e soprattutto spaventato a morte e mi sono trovato nell'ingresso di casa il giovane Enrique con un ragazzo e una ragazza (che poi avrei scoperto essere americani, o qualcosa del genere, per il loro accento).

"Che cosa ci fate qui? Questa è casa mia" ho detto con tono nervoso e agitato.
"Sono venuto a mostrare l'appartamento ai ragazzi", mi ha risposto placidamente Enrique.
"Senta, io vivo qui da un anno e non mi risulta che sto per lasciare questa casa, ma chi vi ha dato le chiavi?"
Nel frattempo i due ragazzi hanno cominciato ad assumere un atteggiamento fastidiosamente divertito, della serie "Oh my gosh we're in a fucking Almodovarian scene" e il ragazzo non ha trovato niente di meglio che intervenire:

"Piacere, siamo i nuovi inquilini!"

Gli ho risposto con un sorriso così falso che trasudava odio, e mi sono rivolto di nuovo a Enrique:

"Ma poi come vi salta in mente entrare in casa della gente senza nemmeno suonare?"
"Io non avevo idea che ci fosse qualcuno", si è difeso, "mi hanno dato le chiavi in agenzia, guardi, ho anche la scheda dell'appartamento, questa è la mia agenzia". "Oh my god" ha sottolineato la ragazza.
"Senta io non so e non mi interessa di che agenzia siate ma non permettetevi più di entrare in questa casa", ho ripetuto, mentre la rabbia mi montava dentro.
"Forse dovresti parlare con la tua proprietaria", mi ha sfidato Enrique.
"Sì, ma anche tu col tuo capo. Ti rendi conto di che significa stare sotto la doccia e trovarsi gente in casa?". Ho cercato di trasmettergli la sensazione di Marion Crane Vs. Norman Bates che avevo provato pochi minuti prima, ma credo sia stato inutile.

Un po' di scuse, e i tre se ne sono andati, e percepivo che ai due non più potenziali acquirenti rideva anche il culo per quello che era appena successo.

Un unico sollievo: sarebbe potuta andare peggio.